venerdì 29 gennaio 2010

Ryłko: "il 'nuovo stile di collaborazione' tra sacerdoti e laici nei movimenti ecclesiali e nelle nuove comunità"


Il Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici al V Colloquio di Roma

Il Cardinale Stanisław Ryłko ha presentato questo martedì "il 'nuovo stile di collaborazione' tra sacerdoti e laici nei movimenti ecclesiali e nelle nuove comunità" e il beneficio che ne può trarre la Chiesa.

Il Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici è intervenuto al V Colloquio di Roma, organizzato dalla Comunità dell'Emmanuele e dall'Istituto Universitario Pierre Goursat (IUPG), in collaborazione con l'Istituto Pontificio "Redemptor Hominis", dal 25 al 27 gennaio sul tema "Sacerdoti e laici nella missione".

Il "nuovo stile" di collaborazione tra sacerdoti e laici, ha spiegato il porporato polacco, presuppone "che i presbiteri riconoscano l'identità propria dei fedeli laici e ne valorizzino effettivamente la missione nella Chiesa e nel mondo, guardandosi sia dal nutrire diffidenza nei loro confronti e dall'assumere atteggiamenti paternalistici e autoritari nel governo delle comunità parrocchiali, sia da quella falsa promozione del laicato che, non rispettandone la specificità della vocazione, rischia di tramutarsi in un alibi per il disimpegno e la rinuncia ai propri doveri pastorali verso la comunità cristiana". [Si mette in risalto la funzione dei laici con il pretesto di evitare 'paternalismo' e 'autoritarismo' mentre i sacerdoti, che sono GUIDE, è giusto che esercitino l'Autorità (ben altra cosa, rispetto all'autoritarismo) che è loro propria. Abbiamo invece ben presente il vero AUTORITARISMO esercitato dai catechisti neocatecumenali anche sui 'presbiteri'. Inoltre viene messa in campo anche la 'diffidenza': appare un mettere le mani avanti nei confronti delle riserve che diversi parroci hanno nei confronti del Cammino nc, perché qui si parla di movimenti, ma l'unico movimento invasivo per le parrocchie, che fagocita le pastorali delle diocesi, è proprio e soltanto il cammino...]

Questo "nuovo stile" [nuovo stile che, abbiamo dimostrato con ampia documentazione nel sito e nelle discussioni, introduce una NUOVA CHIESA, con nuova teologia ed ecclesiologia e corrispondenti prassi di rottura con la Tradizione, con il pretesto del Concilio, ma in realtà con l'introduzione di elementi giudeo-luterano-gnostici], ha aggiunto, chiede ai laici "un vivo senso di appartenenza ecclesiale oltreché la consapevolezza della propria corresponsabilità e necessaria partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa, scuotendosi dall'indifferenza ed evitando, tuttavia, sia un eccessivo ripiegamento sugli affari intra-ecclesiali a scapito della missione, sia la pericolosa trappola di certa mentalità ostile all'istituzione ecclesiale e contagiata dalla logica mondana della lotta per il potere, sia un corporativismo aggressivo e contestatario nei confronti del Magistero ecclesiale" [Buoni e saggi consigli che il cammino di certo non segue e per il quale non sono mai valsi] .

"Fattore decisivo per il risveglio missionario di tutto il popolo di Dio in un mondo dove dilagano laicismo e neopaganesimo, e dove Dio è sempre più il Grande Escluso, il 'nuovo stile' di collaborazione tra Pastori e laici inaugurato dal Concilio Vaticano II si prospetta tuttora come un traguardo importante a cui tendere insieme e spesso come una vera sfida da raccogliere", considera il Cardinale. "Ognuno deve fare la sua parte: sacerdoti e laici". [Il famoso 'popolo di Dio', formulazione molto veterotestamentaria che oggi ha preso il posto della più pregnante e significativa realtà di "Corpo di Cristo", a Lui assimilato e 'configurato' e in Lui radicato, non alle "nuove mode" e ai "falsi profeti" e "cattivi maestri" del nostro tempo]

"Ai nostri giorni, suscita grande speranza nella Chiesa la stupefacente fioritura di movimenti ecclesiali e nuove comunità, anch'essa frutto del Concilio", ha spiegato, constatando che "tra gli stessi fondatori, del resto, figurano sia laici (uomini e donne) che sacerdoti, religiosi e religiose". [i famosi nuovi carismi che, per essere confermati, andrebbero vagliati con maggior cognizione di causa. La laicità del fondatore non è di per sé preclusiva, ma lo diventa quando devia dalla dottrina Apostolica]

In questi movimenti, ha aggiunto, "prende forma così un 'noi' comunitario" che diventa "un percorso pedagogico fatto 'insieme' e nel quale ci si sente tutti coinvolti e interpellati, sacerdoti compresi". "Per questo, i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono diventati vere e proprie fucine del 'nuovo stile' di collaborazione tra Pastori e laici nel servizio alla missione evangelizzatrice della Chiesa". [Il cardinale, tra l'altro non essendo un teologo, ma un sociologo evidentemente 'modernista', non tiene conto di quanto, come avviene nel cammino nc, il "noi" comunitario possa diventare spersonalizzante e massificante, creare un'identità collettiva e precludere la risposta personale, unica, il rapporto intimo e profondo che il credente instaura col Signore prima di poterlo vivere con i fratelli in qualunque altra comunità e, con "il resto del mondo", al di fuori dell'ambito comunitario che, per il cammino neocatecumenale diventa l'unico punto di riferimento...]

"Il sacerdote, per primo, deve saper cogliere e interpretare la novità di questi 'doni carismatici' porgendo l'orecchio a quello che lo Spirito dice alla Chiesa oggi (cfr Ap 2, 8). Ai movimenti non si deve guardare come a un 'problema pastorale', ma come a una grande opportunità, una preziosa risorsa di rinnovamento delle nostre comunità parrocchiali". [guardare alla "grande opportunità e il "non si deve" detto con autorità e riferito ai 'problemi pastorali' riconosciuti e richiamati persino dal Santo Padre, appare senz'altro una forzatura... Inoltre, tirare in il problema pastorale significa implicitamente riconoscere che ci sia; tuttavia si tenta di minimizzarlo o addirittura di ignorarlo!

Associazioni e movimenti ecclesiali, ha constatato il Cardinale, "possono costituire un nucleo vitale delle parrocchie in cui operano", aspetto "particolarmente vero per le parrocchie urbane che, non di rado estese su territori molto vasti, si misurano con il rischio di un anonimato che può essere efficacemente contrastato da una microstruttura di piccole comunità cristiane che vivono la fede con intensità". [se quella "vissuta con intensità" -in comunità il cui zelo appare più quello della dipendente appartenenza piuttosto che quello per il Signore- fosse l'autentica fede cattolica, nulla questio!]

"Essi non si pongono in concorrenza con la parrocchia, né tanto meno, sono un'alternativa alla parrocchia - ha segnalato -. Rappresentano piuttosto una grande possibilità pastorale da cogliere. Perché ogni ambiente in cui si formino cristiani 'adulti', consapevoli della propria vocazione e missione, serve la causa della Chiesa e della parrocchia". [Rimarchevole notare come il card parla di problemi esistenti e cogenti (e se ne parla vuol dire che non possono più essere ignorati!), ma trasformati in "una grande possibilità pastorale", senza peraltro motivazioni esplicite e convincenti, ma non l'abituale apoditticità propria dei responsabili del Cammino nell'enfatizzare il loro prodotto: "pacchetto iniziazione chiavi in mano"]

"Dai suoi ministri la Chiesa si aspetta quindi sensibilità, apertura e cordiale accoglienza di queste nuove realtà che portano nella vita di tante comunità cristiane frutti veramente benedetti di conversione, santità e missione". [Penso che la Chiesa dai suoi ministri debba aspettarsi in primo luogo e soprattutto la fedeltà al Suo Signore a ai suoi insegnamenti trasmessi col Magistero di sempre e bypassati dalle nuove mode spacciate per carìsmi: il caso delle esperienze e delle personali sintesi sincretistiche di un laico e di una ex suora trasferite coercitivamente a tutti i credenti, francamente apparirebbe assurdo e improponibile, se non fosse una tragica realtà]

"D'altro canto, il carattere essenzialmente laicale dei movimenti ecclesiali non sopprime il bisogno che essi hanno di una presenza sacerdotale. Lungi dal significare la loro clericalizzazione, tale presenza - sempre animata da sincera carità pastorale - è bensì un servizio prestato nel pieno rispetto della libertà associativa dei fedeli laici e del carisma di ciascuna realtà aggregativa". [Ha bisogno di rincarare la dose delle giustificazioni, col riferimento all'enfasi tutta post conciliare dei cosiddetti carismi che nel Cammino, che rappresenta un "Unicum" rispetto a qualunque altro movimento, sono improvvisazioni e allontanamento dalla Tradizione!]

I movimenti ecclesiali e le nuove comunità hanno dunque bisogno "del sapiente, attento e paterno accompagnamento dei Pastori. Si tratta di una missione impegnativa e molto delicata, alla quale ogni sacerdote deve prepararsi in modo adeguato, a prescindere dal fatto di una sua effettiva appartenenza all'uno o all'altro". [se davvero tutto si svolgesse in questo modo! Ma nel cammino i sacerdoti DEVONO obbedire ai catechisti]

Il Cardinale si è detto convinto che l'Anno Sacerdotale che stiamo vivendo nella Chiesa costituisca "un'ottima opportunità data ai Pastori per mettersi all'attento ascolto di ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa mediante questi doni carismatici". [mettersi in ascolto del Signore per recuperare le virtù sacerdotali del Santo Curato d'Ars proposto dal Papa come modello (Santa e Divina Liturgia, e confessione...) no, eh!]

"Ai cristiani stanchi e scoraggiati e a tante comunità cristiane ormai troppo autoreferenziali e ripiegate su sé stesse, i movimenti lanciano la sfida di una Chiesa coraggiosamente proiettata verso nuove frontiere di evangelizzazione", ha concluso. "In questo nostro tempo, la Chiesa ha davvero bisogno di aprirsi a questa novità generata dallo Spirito". [La Chiesa ha bisogno di conoscere e radicarsi sempre più nel suo Signore, attraverso un'autentico Annuncio ed una Pastorale corrispondente!]
ROMA, martedì, 26 gennaio 2010 (ZENIT.org)

mercoledì 27 gennaio 2010

Lefebvriani/Di Segni: Su Concilio Chiesa decida, o noi o loro

Così si esprime il rabbino Di Segni, che è stato capace di impartire una lezione di esegesi su "Israele-Popolo-Terra" a Benedetto XVI. Il Papa, evidentemente in ragione dell'impronta 'diplomatica' data all'evento, non ha replicato nulla -come anche a braccio non gli manca di fare in molte occasioni- nonostante i suoi scritti dimostrino che egli abbia idee molto chiare al riguardo (citate e riportate in conclusione del presente articolo). Le dichiarazioni di Rav Di Segni sono tratte da un'intervista rilasciata in occasione della "Giornata della memoria", che si celebra oggi 27 gennaio:
"Cammino ebrei-cattolici tormentato, speriamo irreversibile"

"Se la pace con i lefebvriani significa rinunciare alle aperture del Concilio, la Chiesa dovrà decidere: o loro o noi!": così il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo di Segni, in un passaggio di un'intervista al mensile 'Il consulente Re' uscito il giorno prima della giornata della memoria.
Di Segni rievoca, al proposito, il discorso pronunciato in sinagoga in occasione della recente visita del Papa, quando, in riferimento alle "aperture" del Concilio vaticano II, ha affermato: "Se venissero messe in discussione, non ci sarebbe più possibilità di dialogo". Ora il rabbino spiega, in riferimento al discorso del giorno prima del Papa alla congregazione per la Dottrina della fede: "E' stata l'ultima aggiunta al discorso, dopo che venerdì mattina 15 gennaio c'è stata una strana apertura ai lefebvriani...".
Che il cammino tra ebrei e cattolici "sia tormentato - afferma più in generale Di Segni - è indubbio, che sia irreversibile è una speranza". Quanto alla definizione usata da Giovanni Paolo II per descrivere gli ebrei - "fratelli maggiori" - il rabbino spiega: "Questa definizione è molto ambigua dal punto di vista teologico, poiché i 'fratelli maggiori' nella Bibbia - ne ho parlato nel mio discorso - sono quelli cattivi, quelli che perdono la primogenitura... Parlare quindi di 'fratelli maggiori' dal punto di vista teologico significa dire: Voi c'eravate, adesso non contate più niente!". L'accenno fatto alle coppie di fratelli biblici nel discorso in sinagoga ha colpito il Papa, racconta poi Di Segni: "Dalla posizione ieratica in cui si era messo all'inizio della cerimonia, ha incominciato a mostrare grande interesse. Non solo: alla fine del mio discorso m'ha detto che l'argomento era molto importante, ciò che ha evidenziato ancora nel nostro colloquio privato".
Di Segni loda, infine, la Comunità di Sant'Egidio: "E' un bell'esempio di collaborazione, è stata fondamentale. Ha fatto di tutto per promuovere la visita, ha fatto molto per salvarla nel momento della crisi".
© Copyright Apcom, 26 gennaio 2010
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Da parte nostra non possiamo non rimanere ancora una volta esterrefatti per le pesanti e inaccettabili ingerenze del rabbino -che non può farsi portavoce degli ebrei i quali non sono un 'monolite' e non hanno un'Autorità suprema di riferimento- nelle questioni interne della Chiesa... Ratzinger/Benedetto XVI spiega nei suoi scritti che la prospettiva universalista, ma non esclusivista né etnocentrica, del Cristianesimo, già tutta presente nel Vecchio Testamento, è diventata esplicita e si è realizzata solo con l’autentica esegesi che Gesù Cristo ha rivelato e permesso. Ed è questa la risposta cristiana all’esegesi rabbinica, tuttora esclusivista ed etnocentrica, espressa ed enfatizzata da Di Segni. L’identificazione tribale tra Dio, terra e popolo è stata ormai superata da duemila anni. E volerla ripristinare significa non camminare con la Storia della Salvezza portata a compimento dal Signore Gesù. In questo senso possiamo definire arcaica, cioè mitica, l’analoga pretesa nazista, al pari di quella sionista, per come si sta rivelando attualmente. Queste ultime sono parole indubbiamente forti, che cozzano con la cultura imperante, ma in esse non manca il Logos e servono per chiamare le cose col loro nome. Ne consegue il riconoscimento di Israele come Stato e Nazione, ma senza alcuna valenza 'messianica'. Vediamo cosa scrive Ratzinger:
"Il cristianesimo era quella forma di giudaismo ampliata fino ad attingere l’universalità, nella quale ora veniva pienamente donato quanto l’Antico Testamento fino ad allora non era stato in grado di dare. La fede di Israele presentata nella ‘Septuaginta’ mostrava l’accordo tra Dio e il mondo, tra ragione e mistero. Essa dava direttive morali, ma mancava di qualcosa: il Dio universale era comunque legato a un determinato popolo; la morale universale era legata a forme di vita molto particolari, che fuori di Israele non si potevano affatto praticare; il culto spirituale era pur sempre vincolato ai rituali del Tempio che certo si potevano interpretare simbolicamente, ma in fondo erano superati dalla critica profetica e non potevano essere fatti propri da parte di animi in ricerca. Un non ebreo poteva trovare posto soltanto ai margini di questa religione, rimanere ‘proselito’, poiché l’appartenenza piena era legata alla discendenza carnale da Abramo, a una etnia. Rimaneva il dilemma se era necessario, e in quale misura, l’elemento specifico giudaico per poter servire rettamente questo Dio e a chi spettasse tracciare il confine tra quanto era irrinunciabile e quanto invece era storicamente accidentale o superato. Una piena universalità non era possibile, poiché non era possibile un’appartenenza piena. A questo livello è stato il cristianesimo a praticare per primo una breccia, ad ‘abbattere il muro’ (Ef 2,14) in un triplice senso: i legami di sangue con il capostipite non sono più necessari, poiché è il legame con Gesù a determinare la piena appartenenza, la vera parentela. Ognuno può ora appartenere totalmente a questo Dio, tutti gli uomini sono in grado e sono autorizzati a divenire suo popolo. Gli ordinamenti giuridici e morali particolari non obbligano più, essi sono divenuti un precedente storico, poiché nella persona di Gesù Cristo tutto è ricapitolato e chi lo segue porta in sé e adempie l’intera essenza della legge. Il culto antico non è più in vigore, è stato abrogato con l’offerta di sé che Gesù ha fatto a Dio e agli uomini. E’ essa ora il vero sacrificio, il culto spirituale, in cui Dio e l’uomo si abbracciano e vengono riconciliati; e la Cena del Signore, l’Eucarestia, ne risulta la reale e certa garanzia sempre presente» "
Non è mia intenzione scatenare in questa occasione una polemica; desidero soltanto che il 27 gennaio sia veramente il giorno della Memoria, e quindi che si accomunino nel ricordo tutte le vittime del Novecento: il secolo, che è stato definito da V. Grossman, della massima violenza dello Stato sull' uomo; ma ad esse vorrei fossero accomunate le vittime di ogni generazione che ci ha preceduti nella storia, ma anche della nostra che -senza nulla togliere al dramma dei nostri fratelli ebrei che è e resta mostruoso- ne ha viste e continua a vederne davvero tante.

Tutti dovremmo comunque ricordare innanzitutto che per avere un futuro bisogna guarire dal passato... e la memoria deve essere sana e responsabile consapevolezza che assimila gli eventi, se li assume e li porta con sé redenti e non il "sacrario dell'odio" dal quale tirar fuori ogni possibile ricatto morale nei confronti del resto del mondo chiamato a testimone.

Non può restare inoltre senza conseguenze asserire che “la shoah” segna “il vertice del cammino dell’odio”, che voleva “uccidere Dio”. Occorre invece respingere la tendenza odierna -che va generalizzandosi sempre di più- di conferire portata teologica e “neo-dogmatica” ad un fatto storico come la shoah quale “nuovo Olocausto”, che sembra addirittura aver rimpiazzato quello di Cristo. Infatti, per la Fede cattolica l’odio di satana ha mosso degli uomini (Sinedrio con il popolo ebraico a lui sottomesso con la connivenza de dominatori Romani) ad uccidere Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, nella sua natura umana. Questo è il vero vertice dell’odio contro Dio, che i veri cristiani, figli del perdono, non prendono a pretesto per demonizzare nessun uomo e nessun popolo nè di ieri né di oggi né di domani.

Da ultimo spero che non si faccia ideologia nel giorno della memoria (non è certo questo l'intento della legge del 2001 che lo istituisce; ma sono sempre possibili strumentalizzazioni di ogni genere, che sarebbero ciniche quant'altro mai) e che piuttosto si aiutino i giovani e in fondo tutti noi a comprendere che ricordare e riconoscere il male presente nella storia serve a cominciare a costruire, oggi, un mondo di pace in cui ogni persona umana ed i valori di cui essa è portatrice, siano il fulcro imprescindibile di ogni convivenza non soltanto formalmente civile, che voglia essere anche "umana" nel senso pieno del termine.

domenica 24 gennaio 2010

Papa Ratzinger benedice l'era dei «cyber-preti»

La Chiesa intera guardi a Internet con entusiasmo e audacia, e i sacerdoti diventino navigatori della Rete, partecipino ai social network e portino la parola di Dio nel grande continente digitale.

Benedetto XVI, nel messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema «Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola», apre ufficialmente l'era del cyber-prete, che dal web mostra «all'umanità smarrita di oggi, che Dio è vicino». Si tratta, scrive il Papa, di comprendere di essere all'inizio di una «storia nuova» in cui «la responsabilità dell'annuncio non solo aumenta, ma si fa più impellente e reclama un impegno più motivato ed efficace». È per questo che è necessario occuparsi delle nuove tecnologie della comunicazione «moltiplicando il proprio impegno, per porre i media al servizio della Parola». «Nessuna strada, infatti - sottolinea - può e deve essere preclusa a chi, nel nome del Cristo risorto, si impegna a farsi sempre più prossimo all'uomo». Non si tratta semplicemente di occupare il web - rischio da evitare - ma di «dare un'anima» al mondo digitale «nella costante fedeltà al messaggio evangelico» che chiede al sacerdote di attuare il suo compito primario «di annunciare Cristo». Da tempo, nella Chiesa, si discute delle nuove possibilità evangeliche aperte dal web: se ne era parlato al Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee del 2008, al Sinodo per la parola di Dio lo stesso l'argomento è ritornato più volte, la Cei ha lanciato il progetto «Chiesa 2.0». E poi, la presenza su FaceBook dei sacerdoti è sempre più diffusa; GodTube, portale di videosharing ispirato ai valori cristiani, è in crescita; così come cresce il sito Pope2You, lanciato dal Vaticano nel maggio del 2009 per favorire l'accesso dei giovani ad immagini, documenti e notizie sul Papa, due milioni di contatti. Nel suo messaggio, il Papa pensa ai giovani che vivono all'interno di «grandi cambiamenti culturali» e chiede ai sacerdoti «un'attenzione particolare a chi si trova nella condizione di ricerca», a «quanti non credono» o «sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche». Ipotizza quindi che il web possa diventare «una casa di preghiera per tutti i popoli», una sorta di «cortile dei gentili» del Tempio di Gerusalemme, dove entrare in contatto con «coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto».

giovedì 21 gennaio 2010

Agnoli parla di Lutero... ma che differenza c'è col cammino neocatecumenale e con l'iconoclastia modernista della riforma conciliare?


Di fronte alla crisi che nel quattro-cinquecento attanaglia la Chiesa cattolica, i suoi vescovi “vagabondi” e parte del suo clero,  la riforma proposta dal monaco agostiniano Lutero viene a toccare il concetto stesso di sacerdozio, di gerarchia. L’attacco al papa, non nella singola persona, ma nell’istituzione in quanto tale, all’“idolo”, si accompagna alla proclamazione del sacerdozio universale e quindi alla negazione del Sacramento dell’Ordine.

A proposito di questo, a livello pratico, non si tralascia di far leva sull’anticlericalismo, particolarmente presente in un’epoca in cui il popolo cristiano poteva assistere alla confusione fra potere spirituale e potere temporale, alla bramosia di mondanità rappresentata, al sommo livello, da varie figure di principi vescovi, ma anche da sacerdoti intenti ad accumulare incarichi e prebende, più che alla cura animarum. È evidente che una nuova concezione del sacerdozio, unita alla dottrina della “sola fides”, porti con sé, consequenzialmente, la riforma di ciò che è compito precipuo del sacerdote, cioè l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione della Messa. “Io dichiaro - scrive lutero nell’Omelia della I di Avvento - che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista” .

E nel “Contra Henricum”: Quando la messa sarà distrutta, penso che avremo distrutto anche il papato... Infatti il papato poggia sulla messa come su una roccia. Tutto questo crollerà necessariamente quando crollerà la loro abominevole e sacrilega messa” . Comprendere la riforma liturgica proposta da Lutero significa allora cogliere le radici profonde, teologiche, della sua polemica. Poco serve il solito impelagarsi in una trattazione storica che si riduca ad una elencazione cronachistica, settoriale - che non coglie l’essenza - delle preghiere della messa cattolica mantenute e di quelle tolte, dei cambiamenti accennati e non realizzati, delle tappe successive e talora contraddittorie di un lento e progressivo delinearsi del rito... Fin da subito infatti Lutero ha presente il cardine, lo spirito della sua azione, ma chiaramente i “dettagli”, gli aspetti “secondari” tardano ad allinearsi, a chiarirsi nella sua mente, ad essere conformati in modo consequenziale. Talora è il conflitto coi discepoli, talora la volontà di non turbare le “coscienze deboli” che determinano ripensamenti, passi indietro, la non applicazione di principi teorici già espressi, o riforme realizzate tacitamente ma non esplicitate, non dichiarate .

Talora infine è la grande libertà nelle cerimonie, che Lutero ammette in linea di principio, a rendere poco proficua una analisi solo anatomica e diacronica della messa protestante. Per tutti questi motivi occorre identificare originari fili conduttori, immediatamente presenti al riformatore, ma che saranno dipanati nel tempo, un nucleo, lo spirito stesso, e non i dettagli, della riforma liturgica, che consiste principalmente nei tre aspetti della condanna della nozione di sacrificio, dell’altare versus populum e dell’uso del volgare.

CONDANNA DELLA NOZIONE DI SACRIFICIO

Ciò contro cui il monaco riformatore viene precipuamente a scontrarsi è la tradizionale nozione cattolica di messa, intesa sì come memoriale e banchetto, ma, prima e soprattutto, come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce, come rievocazione - riattuazione mistica dell’offerta che Cristo fece di sé al Padre, per la salvezza degli uomini. Sacrificio che, come nel mondo ebraico, greco, romano... aveva anche una funzione di ringraziamento, sottomissione e di impetrazione alla divinità, dando luogo solo in un secondo momento alla consumazione e alla compartecipazione. “Vi è un rapporto sorprendente - scrive J.Hani - fra l’altare di Mosè e il nostro (cattolico, nda.) altare. Mosè costruisce un altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue: una è data al Signore (più esattamente: è versata sull’altare che Lo rappresenta) e l’altra la asperge sul popolo...”.

Per Lutero, invece, “la messa non è un sacrificio, o l’azione del sacrificatore... Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore o memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si macchi col nome di sacrificio” . Il sacrificio quotidiano, rinnovato più volte ogni giorno nella Messa, toglierebbe infatti valore all’unico sacrificio di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico e sufficiente da solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente. Questa concezione porta, soprattutto ne “L’abominio della messa silenziosa. Il cosiddetto canone”, del 1525, a modificare la parte essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti: soprattutto il “Te igitur”, nel quale si dice “haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata” ed il riferimento ad Abele. “Ora va rimosso anche il secondo scandalo, che è molto più esteso e appariscente, cioè la convinzione, diffusa un po’ dappertutto, che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio. Anche le parole del Canone sembrano orientate in questo senso, dove dice «questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici», e poi «questa offerta».

E ancora, si chiede in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come quello di Abele, eccetera. Perciò Cristo è chiamato vittima dell’altare” . Nell’insegnamento cattolico, che Lutero trova riassunto in Pietro Lombardo, infatti, il sacrificio dell’agnello fatto da Abele, la morte di Cristo, “agnus Dei” sulla croce, e Cristo come vittima, “hostia”, nella Messa, sono collegati, in quanto il primo non è che la prefigurazione veterotestamentaria dei secondi. Da un punto di vista esteriore, tangibile, occorrerà allora abolire la lettura silenziosa del canone, in quanto essa esclude i fedeli, anch’essi sacerdoti, dalla partecipazione, e soprattutto mette in evidenza l’idea della messa come “azione del sacrificatore”. Implica infatti che il prete, e solo lui, sia concepito come “altro Cristo”, e quindi ad un tempo il sacerdote e la vittima: per questo legge silenziosamente il canone, separando nettamente, col cambiamento di tono di voce e di atteggiamento, la parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della passione prese...”), da quella della consacrazione (“Questo è infatti il mio corpo”), e cioè il memoriale, cui tutti devono far riferimento, dalla azione attuale, reale ri-attuazione mistica del sacrificio. Con Lutero così il canone silenzioso perde di significato, divenendo tutta la cerimonia esclusivamente banchetto e memoriale, e come tale atto comunitario legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storico e non più evento precipuamente soprannaturale, il sacrificio, intrinsecamente efficace (non necessitando della presenza dei fedeli), cui assistere, comunque, da silenziosi e adoranti spettatori, come ai piedi del Golgota.

“Atto comunitario”, si è detto, opposto ad un rito che può essere “privato”, ma che non vuole esserlo in senso assoluto: è il significato del termine “comunità” a mutare, ad assumere connotazioni diverse. Nel concetto protestante esso implica una presenza fisica, concreta, l’incontrarsi reale, attuale, che permette la con-celebrazione e l’ascolto. “L’idea basilare del Protestantesimo - così sintetizza Laura Ferrari - è la convinzione che Dio si manifesta nella comunità, in ciascuno dei suoi membri, convocati attorno alla Santa Mensa per celebrare la Cena e ascoltare la Parola...” .

Il rito cattolico, invece, sacrificale e solo secondariamente conviviale, comporta la supposizione dell’esistenza, sempre, della comunione fra Chiesa militante, purgante, negata dai protestanti, e trionfante, che si realizza, anche in assenza del popolo, per i meriti di Colui “che è il capo del corpo, che è la Chiesa”, attraverso la ricaduta benefica che ha la celebrazione, come la morte del Venerdì santo, sull’universo intero. La messa cattolica, scrive John Bossy, era intessuta di “preghiere di intercessione in vernacolo per le autorità... i frutti della terra, per gli amici” e “non faceva altro che unire i vivi coi morti nell’atto del sacrificio”: E papa Gregorio Magno (Dial. IV 58.2), scriveva: “nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono... a questo Mistero partecipano anche i cori angelici... l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”.

CELEBRAZIONE VERSUS POPULUM; TAVOLA AL POSTO DELL'ALTARE.

Un’altra riforma “esteriore”, che è però conseguenza di premesse teologiche, è l’abolizione dell’altare “ad Deum”, inteso come ara sacrificale su cui un pontefice, nel senso etimologico, realizzi la consacrazione; così lutero condanna l’usanza di porre le reliquie dei martiri, immagine del sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, all’interno dell’altare, in quanto esso va ora inteso non più come luogo di immolazione, del “martirio” rinnovato di Gesù, ma come semplice tavola su cui si realizza la “Cena del Signore”. “...nella vera messa - scrive nel 1526 - fra puri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere così e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi verso il popolo, come ha fatto senza dubbio Cristo nell’Ultima Cena. Ma attendiamo che il tempo sia maturato per ciò” . Quasi chiosando il suo pensiero (che non fu però realizzato in tutti i gruppi protestanti) il riformatore anglicano Thomas Cranmer, 25 anni dopo, spiegherà che “la forma di tavola è prescritta per portare la gente semplice dalla idea superstiziosa della Messa papista al buon uso della Cena del Signore. Infatti, per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario, per servire da mangiare agli uomini occorre una tavola” . Ciò a maggior ragione nell’ottica luterana per cui “il sacerdozio non è niente altro che servizio” di predicazione della S. Scrittura e quindi un servizio rivolto al popolo (versus populum): la centralità dell’azione sacrificale del sacerdote, altro Cristo che si rivolge a Dio Padre, propria del rito cattolico, viene sostituita con la centralità della Parola, la “sola scriptura”. “Tutta la terra - sostiene polemicamente nel trattato intitolato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa” - è piena di sacerdoti, di vescovi, di cardinali, di ecclesiastici, ma nessuno di loro ha il compito di predicare, a meno che non riceva una nuova chiamata speciale” . Questo stesso concetto, la preminenza della Parola e dell’ascolto scritturale, porta ad esclamare, nel medesimo scritto: “Perché deve essere lecito celebrare la Messa in greco, latino o ebraico e non anche in tedesco o in qualsiasi altra lingua?”

L'INTRODUZIONE DEL VOLGARE

L’introduzione del volgare al posto del latino è invero un’altra capitale innovazione, che risulterà funzionale anche alla formazione delle Chiese nazionali e ad accelerare la separazione del mondo protestante da Roma, della Germania dal suo passato latino, nella religione, nelle lettere e nella cultura in genere. Come l’evangelizzatore S. Bonifacio del Wessex, “Grammaticus Germanicus” e il vescovo Rabano Mauro, autore dell’inno liturgico “Veni Creator Spiritus” e soprannominato “praeceptor Germaniae”, avevano portato ai tedeschi, tramite il latino, la Fede cattolica e la cultura romana antica, “conquistando quella terra alla romanità”, è ancora in buona parte attraverso la lingua adottata nella liturgia e nei testi sacri che Lutero e Melantone, giustamente ribattezzati anch’essi “precettori della Germania”, attuano una rottura con il passato e danno vita ad una diversa stagione non solo religiosa, ma anche culturale e politica .
In ultima analisi l’adozione del volgare appare funzionale, in genere, a tutta la concezione della messa luterana, che potremmo definire orizzontale, contrapposta a quella verticale - dall’uomo a Dio, attraverso il sacerdote mediatore - del culto sacrificale cattolico, esteriorizzata, quest’ultima, negli altari notevolmente rialzati di molte chiese romaniche, nello slancio di quelle gotiche, con le loro vetrate vertiginose e i trittici dorati, nell’uso dell’incenso, nell’abbondanza delle luci, nella lussuosa ricchezza dei paramenti che distinguono notevolmente i ministri di Dio dai fedeli... L’“orizzontalità” del culto luterano, invece, nasce da precise convinzioni teologiche: la messa come cena; il sacerdozio universale comunitario, che si manifesta soprattutto nell’abolizione della messa privata : il rito non ha più valore intrinseco - come nel caso in cui, come sul Golgota, il vero attore sia Cristo, tramite il sacerdote, e non i fedeli - ma necessita, per la sua stessa validità, della presenza umana, ne è protagonista l’uomo di fede. Come a dire che la morte di Gesù non sarebbe servita a nulla, se non vi avesse assistito qualcuno.

È quindi il carattere soprannaturale e divino della cerimonia, completamente predominante nella concezione cattolica, che viene, per così dire, ridotto, a favore della dimensione umana, ancor più con riformatori come Zwingli e Carlostadio che ne assolutizzano il carattere memorialistico, negando ogni reale presenza divina nella particola. Questa orizzontalità, forse non completamente slegata dal pensiero antropocentrico degli umanisti, porta con sé, un po’ come l’architettura classicheggiante di un Brunelleschi, la ricerca di semplicità esteriore, che diviene freddezza, nell’addobbo dell’altare, nelle luci e nelle immagini. Una grande consequenzialità, ancora una volta, guida Lutero nell’istituire un legame fra Cena e semplicità, concezione sacrificale e solennità.

Scrive infatti: “Così quanto più la Messa è vicina e somigliante a quella prima messa che Cristo compì nella cena, tanto più è cristiana. Orbene, la messa di Cristo fu semplicissima, senza nessuna pomposità di paramenti, di gesti, di canti, di cerimonie: se fosse da offrire come un sacrificio, parrebbe che Cristo non l’avesse istituita in forma completa” . I tedeschi della Controriforma, ben più delle altre popolazioni cattoliche, risponderanno con la ricchezza e la pomposità dello stile barocco, con gli immensi altari centrali “ad Deum” e l’adozione, più che in passato e più che altrove, di altari laterali con sfondo dorato, del colore, cioè, che meglio di ogni altro poteva trasmettere l’idea della Divinità realmente presente; altri elementi architettonici, come il baldacchino e le balaustre, verranno usati abbondantemente per enfatizzare la centralità e la sacralità dell’altare, non tavola, ma Golgota. Una qualche opposizione ci fu, comunque, anche fra gli stessi seguaci della riforma.

Nel trattato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa”, del 1520, infatti, Lutero propone di “eliminare... le vesti, gli ornamenti, i canti, le preghiere, la musica, le luci e tutto quell’apparato abbagliante”; sei anni dopo invece, nel volumetto citato, “Messa Tedesca...” scrive: “Conserviamo dunque i paramenti della Messa, l’altare, le luci finché si perdono da sé...”. Evidentemente il popolo rimaneva in parte legato alle tradizioni, ai suoi aspetti più visibili, e si ritenne più efficace e indolore una applicazione graduale delle innovazioni. Che comunque non furono sempre percepite, se è vero che ancora oggi, viaggiando nella Germania protestante, si incontrano chiese estremamente semplici e spoglie ed altre dove, per quanto possa sembrare incongruente con lo spirito protestante, rimangono ancora numerose immagini e statue di santi e Madonne. Il confronto fra i due passi sopra citati dimostra anche che il progetto di eliminare i “canti” e “la musica”, presente nel testo del 1520, era già stato abbandonato almeno a partire dal 1526. In un primo tempo infatti il monaco riformatore ritiene che “canti” e “musica” nuocciano alla semplicità e alla sobrietà del rito, come inutili orpelli, finché, scrive Ernesto Buonaiuti, non “sente istintivamente di dover fare qualcos’altro per ravvivare il culto e renderlo atto a riscaldare il cuore della massa credente. Ed ecco che egli scopre improvvisamente in sé delle inattese qualità poetiche e si dà a scrivere, dal 1523, canti sacri..." . La sua primitiva convinzione, che sopravvive solo nella personale avversione per l’organo, è però accolta da alcuni collaboratori e successori, come Zwingli, Calvino, Zwick: si va dalla riduzione delle parti cantate e della musica, al canto esclusivo di melopee salmodiche più o meno elaborate, dalla condanna della polifonia alla soppressione e distruzione degli organi .

La riforma liturgica non è dunque qualcosa di isolato e limitato, ma diventa, è bene ribadirlo, anche linguistica, culturale, musicale e soprattutto architettonica.


LA RIVOLUZIONE ARTISTICA

Non che Lutero abbia contrapposto “una sua nuova concezione architettonica a quella già esistente, ma automaticamente con la sua predicazione vennero posti in particolare rilievo determinati spazi architettonici (pulpito, altare), mentre altri diventavano inutili (cappelle laterali) o venivano utilizzati non più in ordine alla finalità per cui erano stati originariamente previsti, ad esempio il coro come luogo privilegiato riservato al clero” . Le differenze liturgiche si cristallizzano in differenze fisiche, materiali.
L’edificio cattolico è concepito come Domus Dei: tutto deve parlare di Lui, la grandiosità, la luminosità, la stessa posizione dell’edificio, spesso rivolto ad Oriente verso il “Sol Iustitiae” della parusia, e la sua pianta a croce; è Cristo stesso ad abitarla, nel Tabernacolo, rendendola Casa di Dio proprio per una presenza stabile e continua. In essa si rinnova, tramite il sacerdozio gerarchico, il sacrificio della Croce: “l’abside, con la cattedra episcopale e i seggi per il clero, è l’affermazione architettonica della gerarchicità della Chiesa; la centralità dell’altare sotto l’arco trionfale e sotto la solennità del ciborio è la dottrina plasticamente resa del primato del culto e perciò del sacrificio augusto su tutti gli altri interessi della comunità” .

La chiesa protestante è invece essenzialmente la casa dell’uomo-credente, del popolo, dell’assemblea egualitaria che si riunisce per la Cena del Signore. Scompare il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la posizione ad Oriente, l’abside, il coro, il ciborio... Paradigmatiche a questo proposito la chiesa del Paradiso, il tempio di Rouen (1601), di Amsterdam (1630) e i settecenteschi templi di Wadenswill, Horgen e Kloten: sono infatti le prime costruzioni veramente aderenti allo spirito liturgico dei riformatori, che per lo più si erano dovuti servire di edifici cattolici preesistenti, limitandosi a singole modifiche e alla reinterpretazione degli spazi, come, ad es., l’esclusione dell’abside. “Un’ordinanza della chiesa di Hesse del 1526 esorta «tutti i fedeli a partecipare alla preghiera e alla lettura... e alla Cena del Signore. Questi atti non saranno più compiuti nel coro, ma in mezzo alla chiesa...»” .

Anche l’altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo (a questo fine si abbandona anche la divisione in navate, che potrebbe impedire una visuale completa). Evidentemente a questi mutamenti materiali viene dietro l’attenuazione, la scomparsa o il mutamento dei valori simbolici da essi espressi; valori che tentano di esprimere l’ineffabile grandezza del Mistero e del sacro della creazione e del rito. L’edificio propriamente protestante, senza abside, senza tabernacolo, a pianta rettangolare circolare o ellittica, deve ricordare una casa umana, il salone dell’Ultima Cena e non assume quindi più il triplice significato di immagine dell’universo, dell’uomo, tempio vivente della divinità, e di Dio stesso, come sostenevano ad es. S. Massimo Confessore e Onorio d’Autun. Costui, nel suo “Specchio del mondo” - richiamandosi anche alla frase evangelica “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò” (Gv. 2,19) - sostiene che, come la Chiesa-comunità dei fedeli è il Corpo mistico di Cristo, così la chiesa-edificio ne rappresenta la fisicità: il coro è la testa, il transetto le braccia, la navata il busto e l’altare, centro di irradiazione e di convergenza di tutte le linee architettoniche, rappresenta il cuore.

Ancor più, esso è anche immagine di tutto il Corpo di Cristo, definito nella Bibbia “pietra di scandalo”, “la pietra che i costruttori hanno scartato”, “pietra” da cui sgorgarono il cibo e la bevanda “spirituale” per gli ebrei nel deserto (I Cor, 10,4). Per questo viene riverito, baciato, incensato. È il centro del mondo, come stanno a significare la semisfera perpendicolare del ciborio e quella del catino absidale, simboli dell’immensità della volta celeste sopra la terra: non così può essere per l’altare-tavola luterano, e soprattutto zwingliano, la cui centralità non è autonoma, ma dipende dall’essere il supporto dell’assemblea, vero centro e cuore del rito . Sono i riformatori stessi, come Carlostadio e Zwingli, a comprendere il profondo legame fra credenze ed esteriorizzazione, didascalismo visivo, e quindi a promuovere la distruzione di cori, altari, chiese intere, e la costruzione di nuove, di cui le più antiche e tipiche sono “Fleur-de-lys”, “Paradis” e “Terraux”, a Lione .

In questo quadro si inseriscono anche le tendenze iconoclaste variamente diffusesi nel mondo protestante, dalle posizioni moderate di Erasmo, alla forte avversione per le immagini di Zwingli, Calvino e Carlostadio. Quest’ultimo, proprio a Wüttenberg, la città delle 95 tesi, “inaugurò la “messa evangelica” abbattendo e bruciando le immagini” e dando così inizio ad un movimento iconoclasta “serpeggiante in tutta l’Europa del nord” . Benché l’atteggiamento di Lutero fosse alquanto più prudente, “quasi ovunque il primo sintomo visibile dell’incipiente grande trasformazione del cristianesimo fu il ripudio dei santi, espresso in forma di sistematica distruzione delle loro immagini su tela, su tavola o scolpite in pietra, intraprese per iniziativa della pubblica autorità, o di una folla inferocita reduce dai sermoni del cristianesimo riformatore” .

Ripudio dei santi, è bene ricordarlo, che nasce dal terribile pessimismo antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso tra Satana e Dio.

(F. AGNOLI, La liturgia tradizionale. Le ragioni del motu proprio, Fede & Cultura, I parte)

lunedì 18 gennaio 2010

Obbedienza e Discernimento degli Spiriti: una perla di Giovanni Paolo II

Senza esaurire l'altro articolo, questa Catechesi del Venerabile Giovanni Paolo II è davvero una perla.

Catechesi del Santo Padre - Udienza Generale 24 Giugno 1992

1. “Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il popolo di Dio e lo guida e adorna, ma “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1 Cor 12, 11) dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi varie opere e uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa” (LG 12). Questo è l’insegnamento del Concilio Vaticano II. La partecipazione alla missione messianica da parte del popolo di Dio non è dunque procurata soltanto dalla struttura ministeriale e dalla vita sacramentale della Chiesa. Proviene anche da un’altra via, quella dei doni spirituali o carismi. Questa dottrina, ricordata dal Concilio, è fondata nel Nuovo Testamento e contribuisce a mostrare che lo sviluppo della comunità ecclesiale non dipende unicamente dall’istituzione dei ministeri e dei sacramenti, ma è promosso anche da imprevedibili e liberi doni dello Spirito, che opera anche al di là di tutti i canali stabiliti. Per questa elargizione di grazie speciali si rende manifesto che il sacerdozio universale della comunità ecclesiale viene guidato dallo Spirito con una libertà sovrana (“come a lui piace”, dice San Paolo) (1 Cor 12, 11), che spesso stupisce.

2. San Paolo descrive la varietà e diversità dei carismi, che va attribuita all’azione dell’unico Spirito (1 Cor 12, 4). Ognuno di noi riceve da Dio doni molteplici, che convengono alla sua persona e alla sua missione. Secondo questa diversità, non c’è mai una via individuale di santità e di missione che sia identica alle altre. Lo Spirito Santo manifesta rispetto per ogni persona e vuole promuovere uno sviluppo originale per ognuno nella vita spirituale e nella testimonianza.

3. Ma va tenuto presente che i doni spirituali devono essere accolti non soltanto per un beneficio personale, ma prima di tutto per il bene della Chiesa: “Ciascuno, scrive San Pietro, viva secondo il dono ricevuto, mettendolo a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1 Pt 4, 10). In forza di questi carismi la vita della comunità è piena di ricchezza spirituale e di servizi di ogni genere. E la diversità è necessaria per una ricchezza spirituale più ampia: ognuno dà un contributo personale che gli altri non danno. La comunità spirituale vive dell’apporto di tutti.

4. La diversità dei carismi è anche necessaria per un migliore ordinamento di tutta la vita del Corpo di Cristo. Lo sottolinea San Paolo quando illustra lo scopo e l’utilità dei doni spirituali: “Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra, ognuno secondo la propria parte” (1 Cor 12, 27). Nell’unico Corpo ciascuno deve svolgere il proprio ruolo secondo il carisma ricevuto. Nessuno può pretendere di ricevere tutti i carismi, né permettersi di invidiare i carismi degli altri. Il carisma di ciascuno deve essere rispettato e valorizzato per il bene del Corpo.

5. Occorre notare che circa i carismi, soprattutto nel caso di carismi straordinari, è richiesto il discernimento. Questo discernimento viene dato dallo stesso Spirito Santo, che guida l’intelligenza sulla via della verità e della sapienza. Ma siccome tutta la comunità ecclesiale è stata posta da Cristo sotto la guida dell’autorità ecclesiastica, questa è competente a giudicare il valore e l’autenticità dei carismi. Scrive il Concilio: “I doni straordinari . . . non si devono chiedere imprudentemente, né con presunzione si devono da essi sperare i frutti dei lavori apostolici; ma il giudizio sulla loro genuinità e ordinato uso appartiene all’Autorità ecclesiastica, alla quale spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cf. 1 Ts 5, 12. 19-21)” (LG 12).

6. Si possono indicare alcuni criteri di discernimento generalmente seguiti sia dall’autorità ecclesiastica sia dai maestri e direttori spirituali:

a) l’accordo con la fede della Chiesa in Gesù Cristo (cf. 1 Cor 12, 3); un dono dello Spirito Santo non può essere contrario alla fede che lo stesso Spirito ispira a tutta la Chiesa. “Da questo, scrive San Giovanni, potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1 Gv 4, 2);
b) la presenza del “frutto dello Spirito: carità, gioia, pace” (Gal 5, 22). Ogni dono dello Spirito favorisce il progresso dell’amore, sia nella persona stessa, sia nella comunità, e quindi produce gioia e pace. Se un carisma provoca turbamento e confusione, questo significa o che non è autentico o che non è adoperato nel modo giusto. Come dice San Paolo: “Dio non è un Dio di disordine, ma di pace” (1 Cor 14, 33). Senza la carità, anche i carismi più straordinari non hanno la minima utilità (cf. 1 Cor 13, 1-3; cf. Mt 7, 22-23);
c) l’armonia con l’autorità della Chiesa e l’accettazione dei suoi provvedimenti. Dopo aver fissato regole molto strette per l’uso dei carismi nella Chiesa di Corinto, San Paolo dice: “Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore” (1 Cor 14, 37). L’autentico carismatico si riconosce dalla sua sincera docilità verso i pastori della Chiesa. Un carisma non può suscitare la ribellione né provocare la rottura dell’unità; d) l’uso dei carismi nella comunità ecclesiale è sottoposto a una regola semplice: “Tutto si faccia per l’edificazione” (1 Cor 14, 26), cioè i carismi vengono accolti nella misura in cui recano un contributo costruttivo alla vita della comunità, vita di unione con Dio e di comunione fraterna. San Paolo insiste molto su questa regola (1 Cor 14, 4-5. 12. 18-19. 26-32).


7. Tra i vari doni, San Paolo stimava molto quello della profezia, come già abbiamo notato, tanto da raccomandare: “Aspirate ai doni spirituali, ma specialmente a quello della profezia” (1 Cor 14, 1). Risulta dalla storia della Chiesa e particolarmente dalla vita dei Santi che non di rado lo Spirito Santo ispira delle parole profetiche destinate a promuovere lo sviluppo o la riforma della vita della comunità cristiana. A volte queste parole sono specialmente rivolte a coloro che esercitano l’autorità, come nel caso di Santa Caterina da Siena, intervenuta presso il Papa per ottenere il suo ritorno da Avignone a Roma. Sono molti i fedeli e soprattutto i Santi e le Sante che hanno portato ai Papi e agli altri Pastori della Chiesa la luce e il conforto necessari all’adempimento della loro missione, specialmente in momenti difficili per la Chiesa.

8. Questo fatto mostra la possibilità e l’utilità della libertà di parola nella Chiesa: libertà che può anche manifestarsi nella forma di una critica costruttiva. L’importante è che la parola esprima veramente un’ispirazione profetica, derivante dallo Spirito. Come dice San Paolo, “dove è lo Spirito del Signore, là è la libertà” (2 Cor 3, 17). Lo Spirito Santo sviluppa nei fedeli un comportamento di sincerità e di fiducia reciproca (cf. Ef 4, 25) e li rende “capaci di correggersi a vicenda” (Rm 15, 14; cf. Col 1, 16). La critica è utile nella comunità, che deve sempre essere riformata e tentare di correggere le proprie imperfezioni. In molti casi l’aiuta a fare un nuovo passo avanti. Ma se viene dallo Spirito Santo, la critica non può non essere animata dal desiderio di progresso nella verità e nella carità. Non può svolgersi con amarezza; non può tradursi in offese, in atti o giudizi lesivi dell’onore di persone e di gruppi. Deve essere compenetrata di rispetto e di affetto fraterno e filiale, evitando il ricorso a forme inopportune di pubblicità, ma attenendosi alle indicazioni date dal Signore per la correzione fraterna (cf. Mt 18, 15-16).

9. Se la linea della libertà di parola è questa, si può dire che non c’è opposizione fra carisma e istituzione, perché è l’unico Spirito che con diversi carismi anima la Chiesa. I doni spirituali servono anche all’esercizio dei ministeri. Essi vengono elargiti dallo Spirito, per contribuire all’avanzamento del Regno di Dio. In questo senso si può dire che la Chiesa è una comunità di carismi.

sabato 16 gennaio 2010

Obbedienti o disobbedienti? E obbedienti a chi?

Rispondo a Zufolo con un articolo perchè la questione che pone presenta implicazioni articolate e complesse. Dice Zufolo:

Temo di avere perso la bussola. Quindi bisogna essere obbedienti o disobbedienti? E obbedienti a chi? Non ai catechisti direte voi e non a Kiko, ma al Papa, giusto? Ma a quale Papa? Benedetto XVI o Paolo VI o (sperabilmente) tutti e due? Mic, per favore, vienitene fuori con uno dei tuoi tripli salti mortali dialettici per dimostrare che non importa quale sia la citazione, da chi e che cosa dica, il Cammino sta sempre dalla parte sbagliata! Altrimenti qua la confusione regna sovrana...

Si perde la bussola quando si assolutizzano i concetti smarrendo i punti essenziali di riferimento.

Premesso che la coscienza di ogni persona è frutto di un processo dinamico in costante divenire, essa risulta strutturata, orientata e in costante maturazione attraverso le conoscenze mutuate da fonti attendibili e attraverso le esperienze, gli incontri, le relazioni più o meno vitali che le varie situazioni, ambiti di coinvolgimento e momenti della vita consentono.

Ebbene, la fede ricevuta nutrita e vissuta nella Chiesa e la formazione permanente data dalla costante attenzione ed adesione (che comprendono vita sacramentale, studio, preghiera e messa in pratica dei conseguenti frutti nelle varie stagioni della vita), ci rende -nonostante i limiti di ognuno- uomini e donne sempre più autentici, secondo il cuore di Dio, veri cristiani, che sono portatori nel mondo di una Presenza, che li precede e li sorpassa, ma che non lascia infruttuoso il loro 'esserci', impegnato e appassionato e fecondo nella misura e nei modi che il Signore ad ognuno concede anche in base alla sua risposta. Naturalmente non è detto che i frutti siano sempre e tutti visibili, perchè davvero, se a volte riusciamo a cogliere ciò che il nostro 'esserci-col-Signore' provoca nell'immediato e nel quotidiano, non possiamo neppure immaginare cosa esso provochi negli orizzonti più ampi ed incommensurabili dello spazio e del tempo in cui siamo collocati, ma che il dono Soprannaturale della Grazia di Cristo ci consente di oltrepassare, trasferendoci ed immergendoci nell'orizzonte infinito e senza tempo della Sua Vita Divina, che comincia già qui...

Posto quindi l'essenziale per sommi capi, si pone -serio- il problema dell'obbedienza (che presuppone fiducia e riconoscimento di Autorità), perchè certamente è da essa che occorre partire per innescare e rendere vivo il processo che ho descritto sopra, che passa anche attraverso le nostre fonti ed i nostri formatori, comprese le persone con le quali ci confrontiamo in un dialogo autentico, che sia reale scambio di conoscenze ed esperienze, accoglibili nella misura in cui ci sono connaturali

La nostra prioritaria adesione e conseguente obbedienza (che si fa ascolto e dialogo e risposta costanti e sempre più profondi; fede è infatti adesione totale, sequela, di una Persona, che ha Nome Gesù Cristo) è innanzitutto per il Signore e, poi, ovviamente per chi Lo rappresenta nella misura in cui davvero costui obbedisce a Lui.

Quando si tratta dell'Autorità suprema, cioè il Papa, è ovvio che l'obbedienza è dovuta, ma resta libera -a detta dello stesso Papa in un suo libro recente- la priorità della coscienza (ovviamente illuminata dalla fede e nutrita dal Magistero perenne della Chiesa). Questo significa che anche al Papa obbedienza è dovuta quando e nella misura in cui egli esprime verità di fede e ne è riscontrabile la loro aderenza ad un principio basilare: gli Apostoli ci hanno lasciato quanto da Cristo avevano ricevuto ratione ecclesiae, non i "carismi personali" ma le verità riguardanti la Fede e la Chiesa. Successio et Traditio: al successor (l'uomo provato e sicuro cui è trasmessa la successione Apostolica attraverso l'unzione e l'imposizione delle mani, il quale a sua volta, per alcuni compiti non legati alla Liturgia 'manda' uomini e donne altrettanto provati, formati e sicuri, cioè fedelmente aderenti alla Verità) viene trasmesso un deposito di cui diventa custos et traditor, ossia custode e trasmettitore di quod semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, non approssimativamente ma eodem sensu eademque sententia. Sostanzialmente si tratta di quel che il Papa chiama "continuità".

Da questo deriva che lo Statuto NC non è una verità di fede pronunciata ex cathedra alla quale tutti devono aderire per rimanere in comunione col Papa, tanto più che in coscienza, nutrita dal Magistero Perenne e dalla fede vissuta - possiamo affermare che le sue applicazioni non codificate nonchè le non-applicazioni codificate presentano serie difformità con gli insegnamenti e le prassi autenticamente ecclesiali.

Il cammino nc costituisce uno dei casi più eclatanti di germinazione di conio conciliare in cui si è determinata una vera e propria 'rottura' con la Tradizione, in parte col pretesto di un cosiddetto "ritorno alle origini" (che già Pio XII nella Mediator Dei qualificava "insano archeologisno liturgico" e tale è e resta), 'ritorno' tra l'altro praticamente impossibile e anche inutile perchè nella Chiesa sono confluite la storia e soprattutto la fede viva delle generazioni passate, oggi purtroppo custodite solo da un 'piccolo resto', perchè gran parte della Chiesa visibile le ha oltrepassate per inseguire "magnifiche sorti e prgressive" totalmente altre...

Nel Cammino esiste l'aggravante di elementi neoprotestanti e sincretistici di tipo pesantemente giudaizzante a tutto scapito della reale Opera ed Essenza del Signore Gesù... le numerose prove e idocumenti da noi prodotti al riguardo non vengono presi neppure in considerazione dalla maggior parte dei NC, perchè prevale l'Autoritarismo assoluto rigido e inconfutabile degli iniziatori e dei loro ripetitori-megafono: i catechisti. Questa è la ragione per cui nel cammino si obbedisce a Kiko e non al Papa... anche perchè in esso non esiste coscienza individuale, che viene delegata alla totalizzante autorità dei catechisti operante anche sui presbiteri (!), ma vi si forma, si consolida e si vive una vera e propria "identità di gruppo", totalizzante e massificante. Certo chi è totalmente invischiato o chi ne gestisce i meccanismi non sempre consapevolmente ma con modalità indotte, è difficile che lo riconosca; ma purtroppo così è e così troppi che hanno responsabilità lasciano continuare che sia

venerdì 15 gennaio 2010

Concilio dell'ecumenismo. Emblematica profezia di Prezzolini

All’indomani della chiusura dell’assise conciliare uscì un’edizione speciale dell’Osservatore della Domenica (una sorta di periodico settimanale illustrato de l’Osservatore Romano) ad essa dedicata. A pagina 176 delle 266 pagine della pubblicazione comparve, tra le molte dichiarazioni rilasciate a commento di ciò che con enfasi il periodico chiamava «Il Concilio dell’aggiornamento e dell’ecumenismo», quella appunto del pensatore di Lugano, che, senza scomodare lo Spirito Santo, né alcun carisma profetico, ma semplicemente e freddamente usando la via ordinaria della ragione, così scriveva:

«Mi ha colpito di più la dichiarazione sulla libertà religiosa. Di fronte a questo capovolgimento della dottrina cattolica, il resto mi è parso bazzecola. Credevo ci fosse un numero maggiore di prelati disposti a dare 5 in condotta a tutti i santi, da Agostino, a Domenico, che hanno combattuto, imprigionato, torturato, sterminato eretici. Oggi, con la libertà di coscienza, devono abbracciarli. E poi non era stata, questa libertà di coscienza, esplicitamente condannata dal Papa Gregorio XVI, che citava per l’appunto Sant’Agostino (‘quae peior mors animae, quam libertas erroris?’)… Il Papa la definiva sentenza erronea, anzi, meglio, un delirio. E se un Papa si sbagliò, parlando ex cathedra, si potranno sbagliare altri Papi. Credo che i reverendi padri abbiano pensato di diventar popolari presso le masse. Ma no: esse vogliono pane e divertimenti, domandano di essere istruite e non di istruirsi, sono disposte ad accettare qualunque dottrina che abbia autorità. La libertà fu il sogno di una classe scelta che sceglieva con quella il tormento della ricerca. Le masse non sanno che cosa sia questo tormento. Forse la Chiesa sarà salvata da preti ignoranti, ma pieni di Fede, da santi che obbediscono senza discutere, da uomini buoni che fanno la carità senza pubblicare opuscoli. Il Concilio ha corrisposto alle mie aspettative, perché ero pessimista. L’influenza del Concilio è stata grande, grande il suo buon successo. Ma dubito che si possa giudicare dagli effetti prima che sia passato un secolo o due. Può darsi che esso segni la data di un rinnovamento della Chiesa e può darsi che segni il principio della diluizione del Cristianesimo in un sincretismo vago. In ogni modo la sua sfera d’azione è ristretta all’Occidente; ha segnato la sua preminenza fra le Chiese cristiane di quella di Roma. Ma non c’è nessuna possibilità che sia per modificare le chiese di altri Paesi neri o gialli. Islam, Buddismo, Confucianesimo, andranno avanti per loro conto. Il curioso è che i reverendi padri non si sono accorti che la vittoria del Cattolicesimo sulle altre sette religiose fu dovuta alla preminenza in esso dell’autorità: è questa che ha permesso ai cattolici di progredire e di avere radici più salde. Le chiese protestanti hanno, prima del Concilio, proclamato la libertà di coscienza; e cos’è avvenuto? Hanno creato l’indifferentismo. Una volta che si fa entrare in casa la ragione, questa divora tutto: dogmi, storia, miti, costumi». 

giovedì 14 gennaio 2010

Proseguiamo il discorso sulla Liturgia

Mi sembra opportunamente collegato con l'articolo precedente questo intervento del mio amico Don Bernardo, che ho avuto la gioia di conoscere il 14 settembre 2007, durante la celebrazione, dopo oltre 30 anni, della Messa Tridentina in S. Maria Maggiore. Lo inserisco anche a conforto (vedi conclusioni) di chi non ha che il N.O. e non vorrei rimanesse disorientato:

Cari amici condivido in pieno le critiche di tutti voi al messale di Paolo VI, tanto più che è lo stesso Papa Ratzinger che quando era cardinale ha sempre criticato la riforma liturgica, basta che vi leggiate il bellissimo libro "Davanti al Protagonista" con interessanti interventi dell'allora cardinale, mi permetto di ricopiare qualche frase:

"Ciò che è avvenuto dopo il Concilio Vat. II è che al posto di una liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di divenire per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto perseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli e li si è rimpiazzati come fosse una produzione tecnica, con una fabbricazione prodotto banale del momento" pag. 193.

"Quando noi ci raduniamo insieme con i fratelli e con il sacerdote di Dio celebriamo il sacrificio divino, non possiamo scuotere l'aria con rumori senza forma e nemmeno gettare addosso a Dio le nostre preghiere con un chiacchiericcio sguaiato, quelle preghiere che invece Gli dovremmo presentare con umiltà, poiche Dio non ha bisogno che noi Gli ricordiamo tutto ciò con le nostre grida" pag. 163.

"La liturgia terrena è liturgia solo per il fatto che si inserisce in ciò che già c'è, in ciò che è più grande" pag. 151.

"Dunque le cose non stanno così che l'uomo si inventa qualcosa e poi lo canta, bensì che il canto gli proviene dagli angeli, ed egli deve innalzare il suo cuore affinchè stia in armonia con questa tonalità che gli giunge dall'alto" pag. 151.

"Una cosa dovrebbe essere chiara. La liturgia non deve essere il terreno di sperimentazioni per ipotesi teologiche. In questi ultimi decenni congetture di esperti sono entrate troppo rapidamente nella pratica liturgica, spesso anche passando allato dell'autorità ecclesiastica, tramite il canale di commissioni che seppero divulgare a livello internazionale il loro consenso del momento e nella pratica seppero trasformarlo in legge liturgica. La liturgia trae la sua grandezza da ciò che essa è e non da ciò che noi ne facciamo.
La nostra partecipazione è certamente necessaria, ma come un mezzo per inserirci umilmente nello spirito della liturgia e per servire Colui che è il vero sogetto della liturgia: Gesù Cristo.
La liturgia non è l'espressione della coscienza di una comunità, che del resto è varia e mutevole.
Essa è la Rivelazione accolta nella fede e nella preghiera...."
pag. 148.

"La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto per la liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono.
Questa credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico che concepisce la liturgia come ogetto di proprietà dell'uomo e risvegliare il senso interiore del sacro..." Pag. 114. 

"L'uomo non può 'farsi' da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto de Dio non si mostra....
La vera liturgia non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività..." 
Pag. 78.

Tutto il libro è una miniera. Penso che ognuno di noi imbevuto di questi principi e unendosi con altri potrà fare qualcosa. Cominciando a rendere più sacre possibili le celebrazioni nello zoppicante Novus Ordo (pieno di limiti e difetti) e poi facendo delle celebrazioni in Vetus Ordo almeno ogni tanto per aiutare gradatamente i fedeli a venire a contatto con i tesori dell'autentica liturgia.
don Bernardo.

mercoledì 13 gennaio 2010

Una seconda finalità del Motu Proprio: La "riforma della riforma"

Vi propongo una interessantissima e attualissima analisi di Paix Liturgique:

La crescente diffusione dell’opera di Monsignor Nicola Bux intitolata “La Riforma di Benedetto XVI” [1] ci offre l’occasione di uscire dall’ambito ristretto della messa in opera del Motu Proprio Summorum Pontificum per fare il punto sulla “riforma della riforma” intrapresa dal Sovrano Pontefice nel campo liturgico e sulla relazione che dovrebbe stabilirsi progressivamente fra le due forme della liturgia romana.

Lo scopo primario del Motu Proprio Summorum Pontificum è noto: fare in modo che la messa tradizionale possa essere celebrata in tutte le parrocchie nelle quali se ne faccia domanda. Il MP non si potrà considerare veramente applicato fin quando, nella cattedrale di Milano o di Bari, in quella di Cagliari o di Trieste, non si potrà assistere alla messa domenicale delle 10 celebrata nella forma ordinaria e a quella delle 11 nella forma straordinaria (o viceversa). Per dirla in breve: in materia di applicazione del MP oggi non siamo che agli inizi.

A – Il progetto della “riforma della riforma”
Un secondo intento all’origine del MP non è immediatamente esplicito ma non per questo è meno evidente sia in ragione di quanto scritto in passato dall’allora Cardinale Ratzinger in materia, sia per via dell’augurio formulato nel testo del 2007: quello di un “arricchimento reciproco” delle due forme che ormai coesistono ufficialmente.

Relativamente all'arricchimento, possiamo tutti capire che la forma più evidentemente “ricca” è quella che beneficia di una tradizione ininterrotta di dieci secoli (e di ben diciassette secoli per quanto riguarda la sua parte essenziale, il Canone), e il cui valore dottrinale e rituale è per lo meno paragonabile a quello delle altre grandi liturgie cattoliche. Così scrive Nicola Bux nella sua opera: “Gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale. [...] Purtroppo, il messale di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio V." Sarebbe quindi assurdo voler negare che la forma che deve essere arricchita/trasformata in primo luogo è proprio quella fabbricata frettolosamente quarant’anni fa.

Si è presa dunque l’abitudine di chiamare “riforma della riforma” questo progetto di arricchimento/trasformazione della riforma di Paolo VI allo scopo di renderla più tradizionale nei suoi contenuti e nella sua forma. Bisognerà però attendere ancora per vederne gli effetti perché, un po’ come il MP, va considerato che la “riforma della riforma” si trova solo al debutto.

Pensando ai futuri sviluppi di questo processo sono opportune due osservazioni preliminari :

  1. La “riforma della riforma”, come indicato dall’espressione stessa, non riguarda che la riforma di Paolo VI. Non suggerisce infatti in alcun modo che parallelemente si dia l'avvio a una trasformazione della forma tradizionale del rito. Le due forme infatti non sono assolutamente comparabili né dal punto di vista della loro relazione con la tradizione né dal punto di vista della loro struttura rituale. Una modifica del rito tradizionale oggi causerebbe un indebolimento del patrimonio liturgico della Chiesa, cosa che del resto Ratzinger, da Cardinale, aveva a suo tempo prudentemente e chiaramente escluso.[2]

  2. La “riforma della riforma” non ha lo scopo di introdurre, attraverso leggi e decreti, un terzo messale posto a metà strada fra il messale tridentino e quello nuovo - che d'altronde è piuttosto una raccolta di linee guida da interpretare con una certa libertà che un “messale” in senso tradizionale. Il Cardinale Ratzinger ieri, Papa Benedetto XVI oggi, è del tutto contrario all’idea di mettere in opera una serie di riforme autoritarie pari a quella – ma in senso inverso – che è stata la messa in pratica della riforma di Paolo VI. Si tratta piuttosto di intraprendere un progressivo riavvicinamento del messale di Paolo VI al messale tradizionale, cosa che peraltro è facilitata proprio dall'elasticità della liturgia nuova: il suo carattere a-normativo la rende paradossalmente accogliente proprio per un ritorno della norma tradizionale. Ci si può d’altro canto chiedere se, alla fine di questo processo, essa conserverà un’altra ragion d’essere che quella di essere propedeutica alla liturgia tradizionale.
B – Il libro di Nicola Bux

L’importanza della pubblicazione di questo libro è collegata anche alla dimensione intellettuale del suo autore. Monsignor Nicola Bux, professore di liturgia e di teologia dei sacramenti presso l’Istituto superiore di Teologia San Nicola di Bari, è consulente della Congregazione per la Dottrina della fede e della Congregazione per le Cause dei Santi e inoltre dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sovrano Pontefice, è consigliere della rivista Communio, nonché autore di numerosi libri (fra i quali "Il Signore dei Misteri. Eucaristia e relativismo", Cantagalli, 2005) e di molteplici articoli (“A sessant’anni dall’Enciclica Mediator Dei di Pio XII, dibattere serenamente sulla liturgia”, L’Osservatore Romano, 18 novembre 2007). E’ inoltre uno dei più influenti sostenitori della riforma della riforma di Paolo VI.

L’opera di Nicola Bux si inserisce nel nuovo movimento liturgico che coinvolge altri noti sostenitori dell’azione del Papa, tra i quali: Padre Alcuin Reid (The Organic Development of the Liturgy, Saint Michael’s Abbey Press, Londra, 2004), Padre Michael Lang (Rivolti al Signore - L'orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, 2008), Monsignor Nicola Giampietro (Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana, Roma, 1998), Monsignor Athanasius Schneider (Dominus Est - Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione, Libreria Editrice Vaticana, 2008), Padre Aidan Nichols (Looking at the Liturgy: A Critical View of Its Contemporary Form, Ignatius Press, 1996) e ancora Don Mauro Gagliardi (Liturgia, Fonte di Vita, Fede&Cultura, 2009). Vanno ricordate ancora le iniziative promosse da Padre Manelli e i Francescani dell’Immacolata, né, beninteso, l’azione quotidiana di importanti prelati come Monsignor Ranjith, Monsignor Burke, il Cardinale Cañizares, ecc.

Il libro di Monsignor Bux ha inoltre beneficiato di tre prestigiose prefazioni: quella di Vittorio Messori per l’edizione italiana, quella di Monsignor Marc Aillet, Vescovo di Bayonne, per l’edizione francese, e quella del Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il Cardinale Cañizares, per l’edizione spagnola.

Secondo Nicola Bux, la crisi che ha colpito la liturgia romana è dovuta al fatto che essa non è più incentrata su Dio e sulla Sua adorazione, ma sugli uomini e la comunità. “All'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. [...] La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio” aveva scritto in proposito Joseph Ratzinger (L'Osservatore Romano, 4 marzo 2000).

La crisi della liturgia comincia nel momento in cui cessa di essere un’adorazione o si riduce alla celebrazione di una comunità particolare nella quale preti e vescovi, invece di essere dei ministri, dunque dei servitori, divengono dei leader. E’ perché, indica Mons. Bux, oggi “la gente chiede sempre più rispetto per lo spazio personale del silenzio, della partecipazione intima della fede ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa".

Bisogna dunque aiutare un clero confuso nella pratica e nella propria coscienza cultuale a comprendere che la liturgia "è sacra e divina, discende dall’alto come la Gerusalemme celeste". Mons. Bux invita perciò a "ritrovare il coraggio del sacro". Un senso del sacro che rinvia al mistero. A questo proposito sarebbe opportuno fermarsi un attimo su una sua osservazione relativa alla lingua liturgica: "Malgrado la messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto"...

E’ il caso che la Chiesa educhi nuovamente il sacerdote al compimento dei Santi Misteri “in persona Christi” come suo ministro e non come animatore di un’assemblea ormai del tutto ripiegata su se stessa.

C – Il progetto della “riforma della riforma”: procedere con l'esempio più che con le norme.Nonostante il peso delle dichiarazioni di Monsignor Bux in particolare e degli "uomini del Papa” in generale, in linea con il pensiero del Santo Padre, in realtà nessuno immagina leggi o decreti per operare una trasformazione radicale autoritaria come invece venne fatto all'epoca Bugnini. Anche se liturgicamente parlando, la Chiesa è oggi molto malata, si preferisce agire con la medicina dolce dell'esempio: l'esempio dato dal Sommo Pontefice in primis, e poi dei vescovi che saranno disposti a fare come lui.

In questo senso si può osservare che Benedetto XVI favorisce un insieme di azioni correttive che ad un occhio disattento possono non sembrare che dei dettagli. La liturgia non è però che una serie di dettagli: celebrazioni pontificali molto degne, bellezza degli ornamenti della sacrestia di San Pietro riutilizzati dal Cerimoniere Pontificio Monsignor Guido Marini, disposizione del crocefisso centrale e di grandi candelieri sull'altare che attenuano il faccia a faccia teatrale tra il celebrante e i fedeli e, soprattutto, distribuzione della Comunione in ginocchio e sulla lingua.

A questo punto sta ai vescovi fare altrettanto nelle loro celebrazioni pubbliche. Sappiamo già che il Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, uno dei teologi più importanti fra i Vescovi italiani, ha emesso il 27 aprile 2009 delle disposizioni con le quali "considerata anche la frequenza in cui sono stati segnalati casi di comportamenti irriverenti nell’atto di ricevere l’Eucaristia" si è deciso che “da oggi nella Chiesa Metropolitana di S. Pietro, nella Basilica di S. Petronio e nel Santuario della B.V. di San Luca in Bologna i fedeli ricevano il Pane consacrato solamente dalle mani del ministro direttamente sulla lingua."

Da parte loro il Vescovo Schneider e Don Mauro Gagliardi [3] ci ricordano con un certo vigore che la modalità "normale" è quella di ricevere la comunione in bocca, e che la comunione nella mano è una modalità “tollerata” seppure da tempo sia la più diffusa. Questo incoraggiamento è molto importante per la rinascita della fede nella presenza reale di Cristo nell'Ostia consacrata. Lo stesso Monsignor Bux insiste sul fatto che il rispetto del divino e del sacro si esprime attraverso segni di venerazione.

Ma ci sono altre proposte immaginate dai sostenitori della "riforma della riforma", e fra queste:
  1. Stimolare la riduzione del numero dei concelebranti e anche delle concelebrazioni stesse perchè quando esse diventano troppo frequenti la funzione mediatrice fra Dio e gli uomini di ogni singolo sacerdote viene offuscata.

  2. Fare in modo di ridurre gradualmente la proliferazione delle parti opzionali della Messa (in particolare si fa riferimento alle preghiere eucaristiche, alcune delle quali risultano per lo meno problematiche da un punto di vista dottrinale).

  3. Reintrodurre elementi della forma straordinaria che promuovono il senso del sacro e l'adorazione perchè, spiega Mons. Bux: "L'ars celebrandi consiste nel servire con amore e timore il Signore: per ciò si esprime con baci alla mensa e ai libri liturgici, inchini e genuflessioni, segni di croce e incensazioni di persone e oggetti, gesti di offerta e di supplica, ostensioni dell'evangelario e della santa eucaristia."

  4. E molte altre cose ancora: ricordare che il bacio della pace è un'azione sacra e non un segno di civiltà borghese, reintrodurre l'uso massiccio della lingua liturgica latina, ecc.
Infine, e soprattutto, come non soffermarsi sull'incoraggiamento dato dagli "uomini del Papa" ai sacerdoti di celebrare verso il Signore, almeno durante l'Offertorio e la Preghiera Eucaristica. Già, nel 2003, l'allora Cardinale Ratzinger aveva scritto la prefazione dell'edizione originale inglese del libro di Padre Lang intitolato proprio: "Rivolti al Signore". Da sua parte, Monsignor Bux spiega bene che la novità più "vistosa della riforma liturgica è stata il cambiamento della posizione del sacerdote verso il popolo". Alla luce di queste parole ci si può aspettare legittimamente che la “riforma della riforma” sarà veramente in marcia quando il Papa e i vescovi celebreranno comunemente rivolti verso il Signore.

D – Il punto più rilevante della “riforma della riforma”

Nel suo libro, Nicola Bux afferma che la chiave della liturgia nuova, come prodotto delle officine Bugnini - l'autore della riforma liturgica - sta nel suo adattamento al mondo. E' qui che, in sintonia con i sostenitori della “riforma della riforma”, la sua riflessione si fa più radicale: l'essenza della liturgia cattolica è di essere "una critica permanente al mondo, a quel mondo che penetra nella Chiesa spingendola ad appartenergli”. Considerando che " la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo", occorre "distinguere la riforma dalle deformazioni".
E' per questo che Monsignor Bux cita e commenta il “Breve esame critico”, pubblicato alla fine del Concilio dai Cardinali Ottaviani e Bacci nel quale questi ultimi: "ritenevano [...] che fosse scomparsa la finalità ultima della messa, essere sacrificio di lode alla Santissima Trinità. Così pure la finalità ordinaria, d'essere il sacrificio propiziatorio”. Si dovrebbe infatti essere ciechi per non notare che il nuovo rito della Messa si è ridotto di fatto ad una immanentizzazione del messaggio cristiano: la dottrina del sacrificio propiziatorio, l'adorazione della presenza reale di Cristo, la specificità del sacerdozio gerarchico e, in generale, la sacralità della celebrazione eucaristica vengono espressi in un modo molto meno evidente rispetto al rito tradizionale. Proprio per questo hanno ripreso vigore i tentativi di inserire nuovamente nelle preghiere del messale di Paolo VI quelle che esprimono al meglio il significato sacrificale, vale a dire quelle dell'Offertorio.[4] [Offertorio che, nel cammino nc Carmen Hernandz insegna essere un retaggio pagano]

Se quindi c'è un punto sul quale possiamo aspettarci un qualche provvedimento in sostegno della “riforma della riforma”, è sicuramente questo: la possibilità di introdurre nella celebrazione ordinaria le preghiere d'offertorio della tradizione romana.

Nel complesso, se questo disegno prendesse davvero corpo, ci si troverebbe alla fine in una situazione inversa rispetto a quella verificatasi tra il 1965 e il 1969: a quell'epoca di cambiamenti bruschi, in cui tutto mutava nella direzione progressista, potrebbe rispondere un periodo di evoluzione dolce in cui tutto cambierebbe in un senso generale di “risacralizzazione”. [senza quel 'clima', la liturgia introdotta arbitrariamente da un laico, che ha avuto la sua legittimazione -guarda caso- da una "nota laudatoria" di Bugnini del 1974, non avrebbe mai potuto aver posto nella Chiesa]

Tale attuazione della “riforma della riforma” per una volta sarebbe davvero “riformista” nel senso tradizionale del termine. Procederebbe per "contaminazione", per usare un termine familiare agli storici della religione quando vogliono parlare dell'influenza di una liturgia su un'altra: in questo caso, si tratterebbe della contaminazione della liturgia tradizionale su quella nuova.

In effetti, si potrebbe addirittura sostenere che la forma straordinaria è forse l'unica possibilità a lungo termine di salvare la forma ordinaria facendo in modo che essa divenga sempre meno ordinaria. La forma moderna potrebbe quindi diventare una sorta di base di partenza per arrivare alla liturgia straordinaria. Si può aggiungere in fine che essa non si troverebbe in concorrenza con la forma straordinaria, ma al contrario potrebbe diventare un mezzo molto favorevole per la sua diffusione e affermazione come forma ufficiale di riferimento.

[1]. "La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione", Piemme, 12 €. Uscito nel 2008, il libro di Mons. Nicola Bux è già stato tradotto in spagnolo e in francese.

[2]. Nel 2001, durante le giornate liturgiche di Fontgombault, il Cardinale Ratzinger aveva detto che non c'era alcuna intenzione di modificare il messale tridentino, senza alcun dubbio per molto tempo ancora, soprattutto perché la sua presenza e il suo uso attuale potrebbero servire come stimolo per un'evoluzione del messale nuovo. Questa è ormai chiaramente la linea seguita dalla Congregazione per il Culto Divino e dalla Commissione "Ecclesia Dei" che considerano per esempio che l'introduzione del nuovo l@ezionario è impossibile nel rito tradizionale. L'unico sviluppo possibile del rito tradizionale, secondo i liturgisti romani, sarebbe l'introduzione di alcuni nuovi prefazi.

[3]. Intervista concessa a zenit.org il 21 dicembre 2009.

[4]. Si veda, ad esempio, il manifesto che è stato il libro di Padre Paul Tirot, osb: Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle, CLV, 1985.

lunedì 11 gennaio 2010

Vi propongo per la nuova riflessione qualche significativo stralcio della recente intervista rilasciata dal card Canizares al vaticanista Rodari:
"Per la situazione religiosa e culturale in cui viviamo e per la stessa priorità che corrisponde alla liturgia nella vita della chiesa, credo che la missione principale che ho ricevuto è promuovere con dedizione totale e impegno, ravvivare e sviluppare lo spirito e il senso vero della liturgia nella coscienza e nella vita dei fedeli; che la liturgia sia il centro e il cuore della vita delle comunità; che tutti, sacerdoti e fedeli, la consideriamo come sostanziale e imprescindibile nella nostra vita; che viviamo la liturgia in piena verità, e che viviamo di essa; che sia in tutta la sua ampiezza, come dice il Concilio Vaticano II, ‘fonte e culmine’ della vita cristiana. Dopo un anno alla guida di questa congregazione, ogni giorno sperimento e sento con forza maggiore la necessità di promuovere nella chiesa, in tutti i continenti, un impulso liturgico forte e rigoroso che faccia rivivere la ricchissima eredità del Concilio e di quel gran movimento liturgico del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo – con uomini come Guardini, Jungmann e tanti altri – che rese feconda la chiesa nel Concilio Vaticano II. Lì, senza alcun dubbio, sta il nostro futuro e il futuro stesso del mondo. Dico questo perché il futuro della chiesa e dell’umanità intera è riposto in Dio, nel vivere di Dio e di quanto viene da Lui; e questo accade nella liturgia e attraverso essa. Soltanto una chiesa che viva della verità della liturgia sarà in grado di dare l’unica cosa che può rinnovare, trasformare e ricreare il mondo: Dio e soltanto Dio e la Sua grazia. La liturgia, nella sua più pura indole, è presenza di Dio, opera salvifica e rigeneratrice di Dio, comunicazione e partecipazione del Suo amore misericordioso, adorazione, riconoscimento di Dio. E’ l’unica cosa che può salvarci”. [....]
Il cardinale, che suole 'passare' con estrema disinvoltura da una celebrazione con i neocatecumenali ad un pontificale in Laterano -pur esprimendo riserve, peraltro non meglio identificate, sulla 'creatività', ma difendendo la 'naturalezza' (?!) della Liturgia- conclude:
“Non solleviamo la questione dell’orientamento ‘versus Orientem’, né della comunione per bocca, né di altri aspetti che a volte vengono fuori come accuse di ‘passi indietro’, di conservatorismo o d’involuzione. ....corrispondono (e anche favoriscono) di più la verità della celebrazione così come la partecipazione attiva, nel senso in cui ne parla il Concilio e non in altri sensi."
Bontà sua che non solleva queste questioni!... e a cosa porta l'anodino sfiorato accenno alla cosiddetta "partecipazione attiva in senso conciliare e non in altri sensi"? Forse prima del concilio non c'era partecipazione attiva? Siamo sicuri che non la intenda nel senso del protagonismo dell'assemblea o di colui che dovrebbe celebrare in persona Christi e da proestòs (colui che sta davanti e, rivolto al Signore, guida e precede i fedeli da lui radunati) è diventato "presidente" dell'Assemblea? Notate che nella lunga intervista, Cristo Signore non è nominato neppure una volta, anche se si parla di Dio, ma solo genericamente? Eppure il Santo Padre ha scritto un volume sul vero Protagonista! Notate anche che sono parole pronunciate nel più puro stile ecclesialese dal quale ognuno può trarre l'interpretazione che preferisce?

Il testo integrale dell'intervista è leggibile anche qui
http://blog.messainlatino.it/2010/01/il-card-canizares-su-motu-proprio-e.html#comments

giovedì 7 gennaio 2010

INTRODUZIONE ALLO SPIRITO DELLA LITURGIA

Pubblichiamo ampi stralci della Conferenza per l’Anno sacerdotale tenuta da Mons. Guido Marini - Città del Vaticano, 6 gennaio 2010 

Mi propongo, con questa riflessione, di soffermarmi con voi su alcuni temi che riguardano lo spirito della liturgia. Mi propongo molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger. 

D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario, soprattutto tra noi sacerdoti. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato? 

Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica. 



Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa. ...Non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.
Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)

Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività. E in questo noi sacerdoti abbiamo una grande responsabilità.

Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo. ....Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede? 
C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.
Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” .... Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.
...“Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” del 2008, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.

Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.

Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)

.... non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.

Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” 

.....Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?

Non c’è dubbio che in questo nuovo rinnovamento liturgico siamo proprio noi sacerdoti a ricoprire un ruolo determinante. Possa, con l’aiuto del Signore e di Maria Madre dei sacerdoti, l’ulteriore sviluppo della riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia, nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.

Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie