sabato 28 febbraio 2009

Il cammino e i giovani (I Parte)

Riprendiamo le traduzioni dal nostro blog spagnolo, con la consapevolezza che si tratta di affermazioni che coincidono con quanto a nostra volta conosciamo e, se detto da altre parti, rafforza l'attendibilità delle denunce...
http://laverdaddeloskikos.blogspot.com/

Nelle comunità un bimbo comincia e essere giovane nel momento in cui compie 13 anni [l’età del bar mitzva = figlio del precetto ebraico: la celebrazione con cui il ragazzo entra nell'età adulta. E' uno dei tanti esempi di "giudaizzazione" –ndR] e già può fare le “catechesi” per entrare in una comunità. Non importa lo stato di maturazione che essi hanno, l’importante è ch eentrino nelle comunità. E’ invece molto importante il livello di maturazione di un bimbo, perché senza saperlo ciò che si dice nelle comunità può provocare danni irrecuperabili nella sua personalità. Ma per le comunità non è importante questo, importante è che il bimbo cominci a “camminare”


L’idea di per sé non è cattiva, posto che con essa si pretende proteggere il bimbo dal mondo, ma essa mantiene il suo lato negativo, che essi naturalmente non prendono affatto in considerazione, dal momento che nel tentare di proteggerli dal mondo, un domani diventano personeincapaci di soffrire quando hanno problemi nella vita

Una volta che fanno le catechesi e cominciano a camminare, comincia l’addottrinamento della loro personalità, perché siano buoni catecumeni: in fondo è questo ciò che si persegue.

L’addottrinamento dei giovani è indirizzato su varie convinzioni, ma sopra tutto sul fatto che i membri della comunità sono la loro vera famiglia che il resto sono degli “associati” (cugini zii fratelli...) ma i loro veri fratelli sono quello che il Signore la loro “regalato” in questa nuova comunità che si è formata. Essi disporranno di molto poco tempo e orari molto difficoltosi per rapportarsi con il resto dei giovani, perché il sabato avranno l’Eucaristia, e lungo la settimana dovranno assistere alle sue parole di preparazione, per non parlare della Quaresima della Pasqua, della pentecoste, delle Convivenze di passaggio, convivenze mensili, ecc..., sicché alla fine l’idea del cammino è quella di monopolizzare completamente la loro vita per fare in modo che non possano entrare in contatto con gli altri giovani.

Per questo si insiste tanto sul fatto che entrino così giovani, perché in tal modo non possano avere contatti con l’esterno e si possa loro manipolare la personalità secondo i criteri del cammino. Sappiamo tutti che l’età fra i 12 e i 18 anni è quella in cui si sviluppa la personalità di un ragazzo/a, che di solito prende come modelli le persone che ammira e ciò che lo circonda: se prendiamo in considerazione il fatto che un ragazzo nel cammino ha come punto di riferimento solamente i fratelli del cammino stesso, e i suoi idoli sono di solito gli itineranti, logicamente questo ragazzo quando sarà adulto tenderà ad essere itinerante, vale a dire al servizio del cammino.

Ciò non sarebbe male se non fosse per il fatto che se il giovane deciderà di lasciare il cammino per qualche ragione, si ritrova perduto, disorientato e solo, per questo si dovrebbe stabilire l’età per entrare in cammino come minimo di 18 o 20 anni, che si suppone sia l’età per poter decidere liberamente e soprattutto quella in cui la personalità è già formata.

I padri (che normalmente sono membri del cammino) fanno in modo di inculcar loro, come da bambini, che le loro amicizie devono essere del cammino e che gli altri sono poveri disgraziati, e che se hanno amici a scuola in collegio o all’università, quel che devono fare è invitarli ad entrare nel cammino. Ricordo che ci dicevano sempre una frase (se uno incontra un gran tesoro, quando torna al villaggio va in cerca dei suoi amici, quelli che veramente ama, e dice loro “amico vieni con me, viene a vedere come si sta bene in questo posto con questo gran tesoro”, lo stesso dovete fare voi, invitare e insistere con i vostri veri amici, perché entrino nel cammino, perché qui c’è la verità) (Come si può vedere puro proselitismo, perché la verità sta NELLA SANTA MADRE CHIESA CATTOLICA). Signore, quanto mi pento di quelli che ho invitato e sono eìntrati, alla fine il Signore saprà!

Se i padri disapprovano che i figli abbiano amici fuori del cammino faranno in modo nascostamente o direttamente che l’amicizia sia interrotta. Meglio non parlare se si tratta di un fidanzatoi o di una fidanzata, questo non si può permettere, se vuoi avere la fidanzata o il fidanzato giovane che sei nel cammino, mai da fuori (questo per la paura che lascino il cammino e si perdano nel mondo.


I grandi problemi cominciano quando i giovani comincianpo a pensare con la loro testa e maturamo e decidono di non entrare o continuare il cammino, poveri loro! Che non gli venga in mente di farlo!
Se un giovane o una giovane decide di non entrare nel cammino quando ha 13 anni semplicemente lo segue sedendo con i bambini in tutte le celebrazioni, per cui in verità lo si sta svergognando davanti a tutti, è come dire loro: guarda i tuoi amici che stanno camminando e sono giovani, e tu resta con i bimbi. Questo nel migliore dei casi, nei quali i genitori vedono che psicologicamente il figlio non è preparato, ma la cosa normale è che i genitori come imperativo dovuto li obblighino a entrare in comunità (“figlio, o entri nel cammino o entri, altrimenti di do uno schiaffo che ti faccio un uomo” perché nel camino vige la massima del “Cavallo non domato cresce indocile, figlio assecondato, cresce libertino (…) non passar sopra ai suoi errori… Obbliga la sua testa mentre è giovane… Insegna a tuo figlio e lavora su di lui perché non inciampi nei suoi errori (come vediamo un’altra cattiva interpretazione della Bibbia.

[In ogni caso sono comportamenti comprensibili in qualunque contesto di esperienza; quello che non quadra è che il cammino è una vera e propria setta e queste di per sé buone indicazioni portano all’addottrinamento ed all’inserimento forzoso in essa. ndR]

giovedì 26 febbraio 2009

La crescita insieme..E' il Tempo di "Dominus Est!"

Amici. Fratelli.

Il Tempo della Quaresima è "Tempo favorevole", per fare Penitenza e per meditare sulla Sacra Dottrina, facendo scelte radicali per la maggior Gloria di Dio e per il Bene dei Fratelli.

Oggi, primo Giorno dopo le Ceneri, annuncio a tutti voi la Nascita del Forum Tradizionale (non tradizional-ista) "Dominus Est!". Si trova al seguente indirizzo: http://dominusest.forum.st/

Questo Forum si propone di inserirsi nel "movimento Liturgico Benedettiano", diffondendo anche nella Rete la Sacra Tradizione e la Devozione al Sacro Culto Cattolico. Specialmente nella forma Gregoriana.

Essendo Forum Cattolico, avrà attenzione per ciò che maggiormente interessa la Chiesa e per le controversie che maggiormente la attanagliano dal di dentro.

In una apposita sezione si terrà viva la Ricerca della Verità nella realtà della Chiesa e del mondo, ivi compresa quella della Fondazione CnC.

Questo Forum nasce per naturale "maturazione" e crescita. Non ha certo l'intenzione di derogare ad argomenti e fatti, ma l'esatto opposto.

La nostra ferma convinzione è che all'interno dei problemi gravi che attanagliano la nostra età e la nostra Chiesa dal di dentro, l'UNICA e SOLA Soluzione viene dalla Sacra Tradizione Viva!

Profondamente convinti di questo, devotamente chiediamo l'aiuto ai Sacri Cuori di Gesù e Maria, ai quali affidiamo questa esperienza.

Chiediamo a loro di Guidarci e di condurci alla Verità con Piena Carità. E ci mettiamo ovviamente al Servizio di Pietro, della Chiesa Cattolica Romana. Unica Chiesa di Cristo.

Il periodo scelto della Quaresima, per la nascita del forum, è indicativo. E' un periodo di Penitenza che guarda alla Penitenza a cui è chiamata tutta la Chiesa in questi ultimi tempi.

La forma del Forum, per chi vorrà, garantirà maggiore leggibilità e trattabilità degli argomenti, con un seguito migliore e più variegato. Ma allo stesso tempo più approfondito.

Il Signore ci guidi. E che noi possiamo sempre rimanere DOCILI, UMILI, SERENI E FORTI. La Vergine Benedetta ci protegga.

Sub tuum praesidium confugimus,
Sancta Dei Genitrix;
nostras deprecationes ne despicias
in necessitatibus;
sed a periculis cunctis libera
nos semper
Virgo gloriosa et benedicta
Amen

martedì 24 febbraio 2009

Pecore e pastori: un libro contro i luoghi comuni

Il Cardinale Biffi si chiede perché l’ortodossia fa più notizia dell’eresia
Clicca qui per le "glosse" di Cantuale Antonianum :-)
di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org). Chi è il cattolico adulto? Qual è il compito dei pastori? Chi sono e quale ruolo svolgono i componenti del gregge? Perché non ci sono donne sacerdote? Perché la Chiesa ha un solo capo? E perché gli si deve obbedienza? A queste ed altre domande risponde il Cardinale Giacomo Biffi con il libro “Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo”, pubblicato dalla Cantagalli (256 pagine, 13,80 Euro).

Il libro, il cui titolo sembrerebbe destinato solo al clero, è anche una schietta e brillante riflessione sui fondamenti e sui compiti della Chiesa, su quel popolo di Dio che il porporato indica come “gregge di Cristo”. Scrive l’Arcivescovo emerito di Bologna: “Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma è l’ortodossia a fare notizia”, ed in questo libro il Cardinale Biffi parla chiaro, sgonfia i luoghi comuni, cancella i sofismi ed i condizionamenti del “politically correct”. Circa l’accondiscendenza con cui alcuni si piegano ai condizionamenti del “politically correct” il Cardinale Biffi sostiene: “Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire ‘credibile’, e non piuttosto che si debba ‘convertire’ la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’ non ‘adattamento’ è parola evangelica”. Del resto, continua il porporato, “la prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: ‘Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede’ ma è: ‘Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Sul ruolo del pastore l’Arcivescovo emerito di Bologna rileva che “tra i gravi problemi della cristianità non c' è solo la scarsità dei pastori, c' è anche la difficoltà dei cristiani a riconoscersi evangelicamente pecore” e aggiunge “il pastore condivide la vita del gregge”, ma ne è soprattutto “il capo e il condottiero”, perché i sacerdoti “non devono seguire le pecore nei loro sbandamenti, ma guidarle con mano ferma”. E pazienza se questa autorità “sarà vista ovviamente come un’autorità che si fonda su sé stessa, e sarà classificata come antidemocratica”.

A proposito di coloro che si sono autodefiniti “cattolici adulti” scrive il porporato: “Se qualcuno manifesta ad alta voce di voler essere considerato ‘adulto’ nella Chiesa, l’intenzione ci sembra legittima e persino encomiabile, purché egli rimanga convinto che, secondo il Vangelo, chi dentro di sé non diventa come un bambino non entrerà nel Regno dei cieli”.

In un capitoletto titolato “Ladri e Lupi” il Cardinale Biffi scrive: “Gesù ci mette in guardia da una visione troppo idilliaca, da un’idea arcaicamente serena della vita pastorale, e ci ricorda che esistono, e sono sempre attive, le forze del male”. “Le sue pecore – continua l’Arcivescovo emerito di Bologna – non devono dimenticare che esistono i ladri ed esistono i lupi. Anzi ci dice senza mezzi termini che il suo gregge vive in mezzo ai lupi i quali tentano sempre di rapire e disperdere gli agnelli di Dio”. “Questi lupi non sono solo esterni al gregge – precisa il porporato –. Si possono trovare anche tra noi in veste di pecore. A questo proposito san Paolo non esita a parlare in termini espliciti di falsi apostoli, lavoratori fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo” e aggiunge: “Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce”.

Su coloro che sparlano della Chiesa, Biffi afferma: “E’ psicologicamente impossibile continuare ad amare una donna, quando se ne vede e se ne sottolinea solo la bruttezza, la meschinità, la natura malvagia. Un prete che si accanisce a parlar male della Chiesa – non diciamo a parlar male degli ‘uomini di chiesa’, che qualche volta è doveroso – farà molta fatica a restarle fedele”.

Il Cardinale che predicò gli Esercizi Spirituali quaresimali alla Curia romana e a Papa Benedetto XVI nel marzo del 2007 sostiene che “è in atto oggi una violenta e sistematica aggressione alla Chiesa, che si esprime e si rifinisce quotidianamente in qualche nuovo atto di ostilità; ed è stupefacente che la cristianità – almeno quella loquacior (quella che più parla e più fa parlare di sé) - non mostra di rendersene conto in misura adeguata”.

Forte è la Critica del cardinale Biffi nei confronti dell’invasione sessuale: “La nostra epoca – ha scritto il porporato - è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi”.“Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale – continua –. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni”. “Bisogna che ci decidiamo – conclude il Cardinale Biffi – o stiamo col ‘mondo’ che ci intima di essere ‘politicamente corretti’, o, senza preoccuparci affatto di essere ‘politicamente corretti’, stiamo col nostro Maestro e Salvatore".
© Copyright Zenit

Dietro lo scisma ricucito

Baget Bozzo su La Stampa di oggi: [...]

Non è certo la dimensione del gruppo di Ecône a porre il problema; lo è invece la tesi, ricorrente nel mondo cattolico e fuori di esso, secondo cui il Vaticano II ha costituito una rottura tra Chiesa pre-conciliare e post-conciliare, abbracciando talmente la modernità da divenire il contrario della Chiesa di Pio IX e di Pio X. Infatti negli anni di Paolo VI, durante il Concilio e subito dopo, l’ingresso della teologia nella pubblicistica comune e il dibattito su tutti i temi aperti nel mondo cattolico aveva dato l’impressione che la rottura non fosse consistita in un arricchimento del linguaggio, ma nella sua alterazione.

Quindi il problema posto dal vescovo Lefebvre andava ben oltre i termini dello scisma reale, che egli aveva preparato e poi consumato. L’azione dei papi, da Paolo VI a Benedetto XVI, è stata tutta rivolta a mostrare che gli sviluppi avvenuti col Concilio erano in continuità con l’implicito della tradizione cattolica e si fondavano su posizioni antiche. [...]

Il carisma di Ratzinger, anche da cardinale, fu quello di unire la continuità nella tradizione con la riforma della Chiesa attuata dal Concilio. Ma questa posizione espressa da Papa all’inizio del pontificato chiedeva di essere testimoniata con l’apertura verso la comunità che aveva creato uno scisma e che aveva rifiutato l’autorità papale? La comunità di Ecône si era indurita nella sua separazione, le sue posizioni pre-conciliari erano diventate anti-conciliari, lo scisma era divenuto la realtà della sua identità?

Papa Benedetto non ha seguito questo giudizio, ha praticato verso Ecône le medesime aperture che il Concilio aveva stabilito verso le Chiese ortodosse e le comunità protestanti, cercando motivi di convergenza. Il fatto che i lefebvriani accettassero sempre formalmente l’autorità papale e il primato petrino era una strada per ottenere la possibilità del superamento dello scisma. Ciò avrebbe provato che il sentimento cattolico di continuità nella tradizione era più forte dell’attaccamento a dimensioni che la storia aveva posto in altra luce col passare del tempo.

Era stato un dramma della coscienza cattolica accettare la grande variazione conciliare e post-conciliare; ogni fedele aveva dovuto affrontare il problema dell’identità della sua fede. Risolvere lo scisma significa riconoscere lo sforzo fatto da milioni di fedeli per ritrovare nel linguaggio che i teologi formulavano l’identità del significato dottrinale e spirituale oggetto della loro fede.

La Chiesa è tesa a mantenere l’unità della fede non solo nello spazio, ma anche nel tempo. In questo la fatica del post-Concilio ha riequilibrato la figura della Chiesa. La speranza conciliare e post-conciliare di un mondo riappacificato con la modernità non si è realizzata nella forma auspicata dai teologi, perché l’avvento della scienza e della tecnica ha posto l’uomo di fronte a problemi assai diversi dalla questione sociale che il comunismo aveva posto al Concilio.

La sfida del tempo unisce la Chiesa e le permette di chiudere le ferite antiche, di fronte a un laicismo totale e all’islam traboccante nella sua coscienza religiosa. Come forma di linguaggio, sia quello pre-conciliare che quello post-conciliare chiedono un aggiornamento nuovo. Papa Benedetto ne fornisce la chiave. © Copyright La Stampa, 24 febbraio 2009


lunedì 23 febbraio 2009

Per il falso "Paolo VI", utente del blog. Non è un caso che non conosca l'Uso della Chiesa nella Fede e nella Liturgia

Fonte: RinascimentoSacro

RdR/Croce al centro e comunione in ginocchio: arbitrio o possibilità?



di Daniele Di Sorco


Premessa
Tra i cambiamenti introdotti di recente nelle funzioni papali su iniziativa di Benedetto XVI, due sono quelli che hanno suscitato maggior interesse: la collocazione della croce al centro dell’altare e la distribuzione della Comunione ai fedeli inginocchiati [1]. È innegabile che queste scelte, pur riallacciandosi all’antica tradizione liturgica della Chiesa latina, costituiscono una novità, non solo rispetto allo stile celebrativo dei precedenti Pontefici, ma anche rispetto alla prassi comune di quasi tutte le Chiese di rito romano.

Il dibattito che ne è seguito basterebbe da solo a testimoniare l’importanza della questione.

In effetti, la posizione della croce e il modo di amministrare la S. Comunione riguardano direttamente, benché in modo diverso, la duplice dimensione, sacrificale e sacramentale, dell’Eucaristia. La croce con l’immagine del Crocifisso, infatti, è l’elemento che rappresenta visivamente tanto il sacrificio di cui la Messa è rinnovazione incruenta [2], quando lo stretto legame che unisce Cristo, offerente e vittima, al sacerdote che agisce in sua persona [3]. La Comunione, poi, è il momento culminante dell’azione liturgica per quei fedeli che, accostandosi alla sacra mensa, ricevono non solo la grazia sacramentale, ma anche la fonte e l’autore della grazia, Gesù Cristo, realmente presente in corpo, sangue, anima e divinità sotto le specie del pane e del vino [4].

Poiché questi due misteri – la morte redentrice del Cristo e la sua riattualizzazione sacramentale – costituiscono il centro della religione cristiana [5], la loro traduzione sul piano rituale non può essere in alcun modo lasciata al caso o trattata con approssimazione. La necessità dei riti liturgici, come mezzo sensibile per elevare la mente dei fedeli alla contemplazione delle realtà spirituali da essi significate, è stata messa bene in luce dai Padri tridentini [6]. Si tratta di una verità che la Chiesa ha sempre creduto e messo in pratica [7]. Chi la ridimensiona o ne sminuisce la portata dimostra di misconoscere la natura umana, la quale, essendo al tempo stesso sensibile e razionale, «non può elevarsi facilmente senza sussidi esteriori alla meditazione delle cose divine» [8]. E, del resto, l’esperienza insegna che, laddove il culto è oggetto di scarse attenzioni, anche la dottrina non gode sorte migliore.

Ho ritenuto necessario mettere in chiaro questi presupposti perché appaia con tutta evidenza che la discussione sull’opportunità di certe scelte liturgiche non è affatto oziosa, vana o inutile. Dall’efficacia del simbolo dipende la possibilità di elevarsi alla verità che esso rappresenta. Perfettamente consapevole di questo principio, sintetizzato dagli antichi nel celebre adagio «lex orandi, lex credendi», la Chiesa ha sempre prestato la massima attenzione, non solo alla dimensione soprannaturale, ma anche all’aspetto esteriore e sensibile del culto. E l’attuale Pontefice, nei suoi scritti e nella pratica, ha più volte ribadito tale concetto.


La prassi attuale

Tornando ai due elementi rituali che sono oggetto del nostro scritto, è possibile osservare che la prassi oggi prevalente nelle chiese di rito romano prevede che la croce sia collocata a fianco dell’altare o dietro di esso, e che i fedeli ricevano la Comunione stando in piedi. Si tratta, com’è noto, di due significativi cambiamenti rispetto alla normativa vigente nel diritto liturgico antico, che voleva la croce al centro dell’altare e la Comunione distribuita ai fedeli inginocchiati.

Introdotte contestualmente alla promulgazione dei Messale riformato (con qualche ritardo o anticipazione a seconda dei luoghi), le due modifiche in questione furono motivate in vario modo. La croce, in seguito alla nuova dislocazione degli altari prevista (anche se non imposta) dalla riforma liturgica, veniva evidentemente considerata un ostacolo che impediva al celebrante e al popolo di guardarsi. Quanto alla Comunione, la possibilità di riceverla in piedi fu giustificata col ripristino di un uso arcaico, ancora osservato in molti riti orientali, che avrebbe avuto, secondo i riformatori, il vantaggio di incentivare la partecipazione attiva e cosciente dei fedeli al sacro rito [9]. Una diffusa tendenza a considerare vincolanti certe indicazioni puramente facoltative ha fatto sì che tali riforme entrassero nella pratica generale.

È noto che da qualche tempo il maestro delle cerimonie pontificie ha ripristinato, per questi due elementi, l’uso antico [10]. Tale decisione ha suscitato reazioni di segno opposto. Alcuni l’hanno giudicata positivamente e hanno auspicato una sua più larga diffusione nelle chiese locali. Per altri, invece, si tratta di una «moda» passeggera, frutto di idee personali del Papa e destinata a non durare a lungo.

Nonostante la divergenza di opinioni, sembra che tanto i primi quanto i secondi si accordino su un punto: la mancanza di idee chiare circa la compatibilità dell’uso antico con le norme liturgiche universali attualmente in vigore. La domanda che molti si pongono può essere così sintetizzata: la prassi introdotta di recente nella cappella papale va considerata una deroga alle leggi generali – consentita al Papa in quanto supremo legislatore, ma non agli altri – oppure una legittima possibilità contemplata dai libri liturgici?

Stante questa situazione di incertezza, ci proponiamo, col presente articolo, di dare uno sguardo al diritto liturgico in vigore per quanto riguarda la posizione della croce e il modo di amministrare la Comunione, di spiegare le ragioni in favore dell’uso antico e, infine, di fornire alcune indicazioni pratiche. Inutile dire che la nostra trattazione si riferisce soltanto alla forma ordinaria del rito romano: nella forma straordinaria la croce dev’essere sempre situata al centro dell’altare [11] e la Comunione ricevuta in ginocchio [12].


Il diritto liturgico

Per quanto riguarda la posizione della croce, l’Ordinamento generale del Messale romano ci fornisce tutte le indicazioni necessarie. Sarà, quindi, sufficiente elencarle, spiegarle e trarne le logiche conseguenze.

Innanzi tutto, la croce è annoverata tra le suppellettili indispensabili per la celebrazione della Messa, non solo all’interno di un luogo sacro, ma anche fuori di esso: «La celebrazione dell’Eucaristia, nel luogo sacro, si deve compiere sopra un altare; fuori del luogo sacro, invece, si può compiere anche sopra un tavolo adatto, purché vi siano sempre una tovaglia e il corporale, la croce e i candelabri» [13].

Alla sua importanza sul piano simbolico si allude nella rubrica precedente, affermando che sull’altare «si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce» [14]. Più oltre si legge che la funzione della croce consiste nel «ricordare alla mente dei fedeli la salvifica Passione del Signore» [15]: essa, pertanto, dovrebbe restare «vicino all’altare anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche» [16]. Del resto, se pensiamo che nella tradizione ecclesiastica, tanto occidentale quanto orientale, l’altare rappresenta simbolicamente Gesù Cristo [17], non sarà difficile comprendere che la croce posta sopra di esso assolve l’indispensabile compito di rendere esplicita tale corrispondenza.

Quanto alle caratteristiche e alla posizione della croce, l’Ordinamento generale prescrive: «Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [18]. Collocare la croce sopra l’altare è, dunque, perfettamente legittimo. Ma si può dire di più. Poiché, nella formulazione delle leggi liturgiche, le possibilità alternative vengono di solito disposte in ordine di preferenza, sembra che la dislocazione della croce sopra l’altare sia non soltanto permessa, ma, a parità di condizioni, raccomandata.

Le rubriche non forniscono nessuna indicazione, neppure indiretta, circa il punto preciso dell’altare sul quale dovrebbe trovarsi la croce. La scelta, quindi, spetta ai rettori delle singole chiese. E nulla impedisce loro di conformarsi all’uso antico che prevede la collocazione della croce al centro, davanti al sacerdote celebrante, a condizione che le altre disposizioni stabilite dalle rubriche siano rispettate.

Chiarita la questione della croce, resta da trattare quella della Comunione. Sull’argomento, il testo italiano dell’Ordinamento generale non brilla per perspicuità. In esso si afferma che «i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale» [19]. Viene spontanea una domanda: la congiunzione «o» ha valore esclusivo o inclusivo? Nel primo caso i fedeli dovrebbero adeguarsi all’unica modalità prescritta dalla Conferenza Episcopale, mentre nel secondo entrambe le modalità sarebbero possibili, a patto che la Conferenza Episcopale abbia autorizzato la Comunione in piedi.

Per avere una risposta sicura è necessario ricorrere al testo latino, nel quale il termine corrispondente ad «o» è «vel» (inclusivo) [20]. Ne consegue che, secondo il diritto liturgico oggi vigente, ricevere la Comunione in ginocchio non è affatto proibito, neppure nei luoghi in cui la Conferenza Episcopale ha autorizzato la Comunione in piedi, ma si configura, per lo meno, come legittima possibilità.

Bisogna ammettere, tuttavia, che, per come è esposta nelle rubriche del Messale italiano, la norma che abbiamo appena analizzato si presta a numerosi fraintendimenti, dal momento che la sua corretta interpretazione è legata a una sottigliezza linguistica. Molti, in effetti, ritengono in buona fede che la Comunione in piedi, nei paesi in cui è stata autorizzata, sia un obbligo a cui tutti i fedeli devono attenersi. Queste incertezze hanno dato luogo a diverse situazioni incresciose. Appare dunque indispensabile ricorrere ad altre fonti del diritto liturgico nelle quali il problema in esame sia affrontato ex professo e, quel che più conta, con maggior chiarezza.

Per nostra fortuna, esistono due documenti della S. Congregazione per il Culto Divino che consentono di risolvere la questione in modo definitivo.

Si tratta di due lettere del 1° luglio 2002, invitate, rispettivamente, a un Vescovo e a un laico [21]. Costoro, di fronte al fenomeno di alcuni sacerdoti che erano soliti negare la Comunione a chi si presentava a riceverla in ginocchio, si domandavano se tale atteggiamento fosse lecito. In entrambe le risposte, la Congregazione, dopo aver dichiarato che «qualsiasi rifiuto della Santa Comunione ad un fedele sulla base del suo modo di presentarsi sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti del fedele cristiano, precisamente quello di essere assistito dai suoi Pastori per mezzo dei Sacramenti (CIC 213)», coglie l’occasione per precisare il senso della rubrica sopra esaminata: «Anche ove la Congregazione abbia approvato norme sulla posizione del fedele durante la Santa Comunione, in accordo con gli adeguamenti ammessi alla Conferenza Episcopale dall’Institutio Generalis Missalis Romani, 160, comma 2, ciò è stato fatto colla clausola per cui su tale base non si potrà negare la Santa Comunione ai comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi».

Confrontando queste disposizioni con l’Ordinamento generale del Messale, si possono trarre due conclusioni che riassumono in sé tutta la normativa attuale in materia. Primo, la distribuzione della santa Eucaristia ai fedeli inginocchiati è una prassi del tutto legittima. Secondo, spetta al singolo fedele, senza bisogno di previo accordo col celebrante (salvo ragioni particolari), scegliere la posizione che preferisce: la Congregazione parla infatti di «comunicandi che sceglieranno di inginocchiarsi» [22].

Da tutto ciò emerge che ricevere la Comunione in ginocchio non è semplicemente una legittima possibilità, ma un vero e proprio diritto di ciascun fedele, che nessun sacerdote può negare, limitare o ignorare [23].


Ragioni a favore dell’uso antico

Abbiamo fin qui cercato di rispondere alla domanda che dà il titolo al presente articolo. Prima di concludere con alcune indicazioni pratiche, resta da vedere se questo uso antico, di cui abbiamo dimostrato la legittimità giuridica, offra anche dei vantaggi a livello liturgico e pastorale rispetto alla prassi comune.

A proposito della posizione della croce, il card. Ratzinger osserva: «Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7)» [24]. E motiva la sua proposta con argomenti che a me paiono molto convincenti:

«Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l’uno con l’altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. [...] In un uso esagerato e malinteso della “celebrazione rivolta al popolo” si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell’altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull’altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l’iconostasi, che è scoperta, non ostacola l’andare l’uno verso l’altro, ma media e significa pure per tutti l’immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione “versus populum”. Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione “conversi ad Dominum”: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore» [25].

Mi limito ad aggiungere che, per costituire veramente un «punto comune di riferimento», la croce ha bisogno di essere collocata non solo sull’altare, ma anche in posizione centrale. Al centro della mensa eucaristica, l’immagine di Cristo crocifisso attira necessariamente su di sé lo sguardo, assolvendo bene la sua funzione simbolica; a lato dell’altare, per grande che sia, finisce per essere praticamente ignorata.

Per quanto riguarda la Comunione, riceverla in ginocchio, a mio avviso, favorisce nei fedeli un atteggiamento di maggior devozione, esprime in maniera visibile l’adorazione nei confronti di nostro Signore e costituisce una pubblica manifestazione di fede nella presenza reale [26]. A chi obietta che la disposizione interiore del comunicando non dipende dallo stare in ginocchio piuttosto che in piedi, rispondo che una delle funzioni del rito è appunto quella stimolare la pietà dei fedeli mediante un saggio uso dei segni esteriori che ci vengono offerti dalla nostra tradizione liturgica. E se è vero che, presa in se stessa, la posizione in piedi non esprime meno devozione di quella in ginocchio, è anche vero che, in una prospettiva storica, questo si verifica. La ragione è assai semplice. I riti non si limitano ad essere rivestimenti esteriori dell’immutabile Sacrificio dell’altare, ma plasmano la mentalità dei fedeli e, con essa, il loro sensus fidei [27].

Così, se per un orientale ricevere la Comunione in piedi è un atto di massima riverenza, perché così gli ha tramandato la sua tradizione, per un occidentale, abituato da secoli a riceverla in ginocchio, passare improvvisamente da un atto di riverenza maggiore a uno minore non è indifferente. Nel migliore dei casi un simile cambiamento si limita a produrre un’impressione di disagio o di confusione. Nel peggiore indebolisce la fede nella Presenza Reale.

Non è un caso, dunque, che il card. Ratzinger si sia espresso a favore di questa pratica, scrivendo che essa «ha in suo favore una tradizione secolare, ed è un segno particolarmente eloquente di adorazione, completamente adeguato alla luce della presenza vera, reale e sostanziale di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» [28].

Per concludere, mi sembra opportuno rilevare come, nei due casi presi in esame, il ripristino dell’uso antico non si configura affatto come una sterile operazione di archeologia liturgica o di antichizzazione del rito. Si tratta, piuttosto, di un’iniziativa che prende le mosse da un principio tanto evidente quanto trascurato: quando le rubriche ammettono diverse possibilità, la prassi più comune non è necessariamente la migliore. I singoli pastori di anime dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia pastorale delle scelte liturgiche da essi operate, senza avere timore, se le norme lo consentono, di adottare una soluzione diversa. Il popolo, dopo un’opportuna catechesi, capirà e apprezzerà.


Indicazioni pratiche


Concludiamo il presente contributo con una serie di indicazioni utili per tradurre in pratica i princìpi teorici finora esposti.

1) Per la croce è preferibile servirsi del modello generalmente in uso prima della riforma liturgica, composto da una base, da un’alzata e dalla croce propriamente detta con l’immagine del Crocifisso. Esso consente di collocarla sull’altare senza bisogno di piedistalli inutili e poco decorosi, e di rimuoverla facilmente quando sia necessario. Quanto alle dimensioni, si ricordi che la rubrica prescrive una croce «ben visibile allo sguardo del popolo radunato» [29] ed anche, naturalmente, del sacerdote celebrante. Sarebbe bene, a mio avviso, che arrivasse più o meno all’altezza del volto del celebrante. In questo modo fungerebbe davvero da fulcro visivo della funzione, verso cui convergono gli sguardi di tutti, e, al tempo stesso, non impedirebbe al popolo la vista dell’altare e in particolare delle sacre Specie durante l’elevazione. Quando l’altare è versus populum, da che parte dev’essere rivolta l’immagine del Crocifisso? Le rubriche non lo specificano, poiché l’indicazione sulla visibilità appena citata si riferisce genericamente alla croce, non specificamente all’immagine del Cristo morente. Varie ragioni consigliano che il Crocifisso sia rivolto al celebrante. Così, infatti, voleva la tradizione antica [30] e così appare meglio, a mio avviso, lo speciale legame che esiste tra il Cristo raffigurato sulla croce d’altare e il sacerdote che agisce in sua persona. Tale soluzione, del resto, è quella adottata dal Santo Padre nelle funzioni da lui presiedute [31].

2) Avendo parlato del Crocifisso, è impossibile non dire nulla a proposito dei candelieri. Com’è evidente, essi non hanno più da molto tempo la funzione pratica di dar luce all’altare, ma conservano intatto il loro valore simbolico, che allude, con la fiamma, a Cristo luce del mondo, e, con la consumazione della cera, al sacrificio [32]. Si capisce, dunque, che relegarli in un angolo dell’altare (o addirittura fuori da esso), appaiati, piccoli, quasi invisibili, ha poco senso. Molto meglio sarebbe collocarli simmetricamente da una parte e dall’altra della croce [33], cui il loro simbolismo è strettamente connesso: non necessariamente accanto ad essa, ma anche, e preferibilmente, alle estremità laterali dell’altare, quasi a fare da cornice luminosa alla mensa divina. Quanti devono essere? La rubrica ne prescrive almeno due, ma nulla impedisce che siano quattro o sei [34] (sempre in numero pari, per ragioni di simmetria rispetto alla croce); non di più [35], quando l’altare è versus populum, e non troppo alti, per evitare, come ammoniscono le norme, che ostacolino eccessivamente la vista [36].

3) La Comunione può essere distribuita alla balaustra nelle chiese che ancora la conservano? Non credo vi sia nessun ostacolo a questa soluzione. La rubrica, infatti, ordina che i fedeli si rechino all’altare processionalmente [37]; ma non vieta che, una volta giunti davanti ad esso, si dispongano lungo la balaustra. Tuttavia, per chi non potesse o non volesse adottare questo sistema, è consigliabile disporre, all’entrata del presbiterio, un inginocchiatoio piuttosto grande, ricoperto di cuscini, che consenta ai fedeli che intendono comunicarsi in ginocchio di poterlo fare agevolmente. Conviene che la balaustra o la parte superiore dell’inginocchiatoio siano ricoperti, come avveniva anticamente, da una tovaglietta bianca [38], che alluda al loro uso come «tavola della Comunione» dei fedeli, simbolico prolungamento dell’altare [39]. Questa tovaglia non esime dall’uso, obbligatorio, del piattello [40]. Si ricordi che la scelta sul modo di fare la Comunione spetta al singolo fedele; pertanto, la distribuzione dell’Eucaristia alla balaustra o all’inginocchiatoio non deve costituire un impedimento per coloro che vorranno continuare a riceverla in piedi. È compito del celebrante ricordare nei momenti opportuni, sia durante la liturgia che negli incontri di catechesi, la possibilità di comunicarsi in ginocchio e le ragioni a favore di tale scelta, senza tuttavia trasformarla, esplicitamente o implicitamente, in un obbligo.

4) È necessario ricordare, infine, che l’ordinamento delle norme liturgiche universali, come quelle che riguardano la posizione della croce o il modo di ricevere la Comunione, compete unicamente alla Santa Sede [41]. Le Conferenze Episcopali e i singoli Ordinari non hanno la facoltà di abrogarle, modificarle o restringerne il senso, a meno che ciò non sia loro espressamente consentito dal diritto [42] (nel caso da noi preso in esame, alle autorità locali è concessa soltanto la possibilità di autorizzare la Comunione in piedi). Di conseguenza, laddove le rubriche ammettono diverse possibilità, la scelta spetta al sacerdote celebrante o, quando previsto, al fedele.

[1] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008. Il Papa, quando era ancora Cardinale, ha affrontato più volte l’argomento nei suoi scritti, esprimendosi a favore della collocazione centrale della croce e della possibilità di ricevere la Comunione in ginocchio.
[2] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 1-2: Denz. 938-940; can. 1-4: Denz. 948-951.
[3] Cfr. PIO XI, Enciclica Ad catholici sacerdotii (20 dic. 1935): Denz. 2275; PIO XII, Enciclica Mediator Dei (20 nov. 1947): Denz. 2300; Catechismo della Chiesa cattolica, 1566.
[4] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XIII, cap. 1 e 3: Denz. 874 e 876; can. 1 e 4: Denz. 883 e 886; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., III, q. 65, a. 3.
[5] Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 11; GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 apr. 2003), 1.
[6] Cfr. CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943.
[7] Cfr. Rom. 1, 20; TERTULLIANO, De corona, c. 2, 3, 4: PL 2, 98-99; S. BASILIO MAGNO, De Spiritu Sancto, 27, 66: PG 32, 188; S. GIROLAMO, Ad Vigilantium, nn. 8-9: PL 23, 362-363; S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7. La definizione dogmatica risale al CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, can. 7: Denz. 954: «Si quis dixerit, caeremonias, vestes sacras et externa signa, quibus in Missarum celebratione Ecclesia catholica utitur, irritabula impietatis esse magis quam officia pietatis: anathema sit».
[8] CONCILIO DI TRENTO, sess. XXII, cap. 5: Denz. 943 («non facile queat [natura hominum] sine adminiculis exterioribus ad rerum divinarum meditationem sustolli»). Cfr. S. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theol., II-II, q. 81, a. 7: «Mens autem humana indiget, ad hoc quod coniungatur Deo, sensibilium manuducatione, quia “invisibilia Dei per ea, quae facta sunt, intellecta conspiciuntur”, ut Apostolus dicit (Rom. 1, 20). Et ideo in divino cultu necesse est aliquibus corporalibus uti, ut eis quasi signis quibusdam mens hominis excitetur ad spirituales actus, quibus Deo coniungitur. Et ideo religio habet quidem interiores actus quasi principales, et per se ad religionem pertinentes; exteriores vero actus, quasi secundarios, et ad interiores actus ordinatos».
[9] Cfr. A. M. ROGUET, La cena del Signore: la Messa oggi, trad. it., Milano, 1970, p. 170.
[10] Cfr. Intervista a mons. Guido Marini: Il Tempo, 29 dic. 2008: «Il cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al centro dell’altare per indicare che il celebrante e l’assemblea dei fedeli non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della loro preghiera. L’altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche l’atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l’adorazione e la devozione dei fedeli».
[11] Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.
[12] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 4. Sebbene la rubrica che prescrive la genuflessione riguardi direttamente solo i chierici, essa si applica, per evidente analogia, anche ai laici.
[13] Ordinamento generale del Messale romano, terza edizione tipica, 297. Si noti che la terza edizione tipica italiana del Messale romano, il cui testo latino è stato pubblicato nel 2000, è ancora in fase di allestimento. Esiste però una versione ufficiale, approvata il 25 gennaio 2004, della Institutio generalis (= Ordinamento generale), che è quella attualmente vigente, nonostante i messali attualmente in commercio nel nostro Paese seguano ancora la seconda edizione tipica.
[14] Ibid., 296.
[15] Ibid., 308.
[16] Ibid.
[17] Cfr. P. RADÓ, Enchiridion liturgicum, Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone, 1961, vol. II, pp. 1408-1409.
[18] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[19] Ibid., 160.
[20] Missale Romanum, ed. typica tertia (2000), Institutio generalis, 160: «Fideles communicant genuflexi vel stantes, prout Conferentia Episcoporum statuerit».
[21] Pubblicate in Notitiae, nov.-dic. 2002.
[22] Ibid. A proposito della Comunione in piedi, è opportuno ricordare qui una norma spesso disattesa: «Quando [i fedeli] si comunicano stando in piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme [emanate dalla Conferenza Episcopale]» (Ordinamento generale del Messale romano, 160).
[23] È la stessa Congregazione per il Culto divino, in una delle due lettere menzionate, a mettere bene in luce questo punto: «Datasi l’importanza di tale questione, la Congregazione vorrebbe richiedere alla vostra Eccellenza che s’indaghi specificamente se questo prete abbia effettivamente l’abitudine di rifiutare la Santa Comunione a qualsiasi fedele nelle suddescritte circostanze; e, se la lamentela è comprovata, sia fermamente istruito a lui e ad altri preti che possano aver avuto una tale abitudine di evitare simili comportamenti per il futuro».
[24] J. RATZINGER, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica, Milano, 1984, pp. 129-136.
[25] Ibid.
[26] Per sottolineare meglio l’importanza degli atti esteriori come manifestazione efficace della fede, non sarà inutile ricordare un significativo episodio della vita di S. Elisabetta Anna Bayley Seton. Assistendo per caso a una Messa solenne nel santuario di Montenero (presso Livorno), la Santa, pur essendo ancora protestante, fu molto colpita dall’atteggiamento di devozione manifestato dai fedeli, tanto che ella stessa, intuendo il mistero della Presenza Reale (come avrebbe poi ammesso nei suoi scritti), si inginocchiò dinanzi all’altare. Si trattò della prima tappa di un percorso che l’avrebbe condotta ad avvicinarsi e poi a convertirsi al cattolicesimo.
[27] È questo, del resto, il senso autentico dell’adagio «lex orandi, lex credendi», messo bene in luce da PIO XI nella Costituzione Apostolica Divini cultus (20 dic. 1925): Denz. 2200: «Hinc intima quaedam necessitudo inter dogma et Liturgiam sacram, itemque inter cultum christianum et populi sanctificationem».
[28] Cit. nella Lettera della Congregazione per il Culto Divino sul diritto di ricevere la Comunione in ginocchio: Notitiae, nov.-dic. 2002.
[29] Ordinamento generale del Messale romano, 308.
[30] Cfr. Dizionario pratico di Liturgia romana, a cura di R. LESAGE, trad. it., Roma, 1956, p. 138.
[31] Non sarebbe meglio, osserveranno alcuni, che il Crocifisso della croce d’altare fosse rivolto non solo verso il celebrante (e i ministri dell’altare), ma anche verso i fedeli? Certamente sì. Tale condizione, però, è realizzabile solo in quelle rare chiese dove si è mantenuta la prassi (perfettamente legittima: cfr. Risposta della Congregazione per il Culto Divino, prot. n° 2036/00/L, 25 settembre 2000) di celebrare verso l’abside. Nelle altre, a meno che non si voglia dotare la croce d’altare di un Crocifisso su entrambi i lati (soluzione che a me pare poco conveniente) si impone una scelta. La migliore, a mio avviso, consiste nel tenere l’immagine del Cristo morente rivolta verso il celebrante, per le ragioni che ho esposto. Nulla impedisce, tuttavia, di collocare nell’abside – come pala d’altare o a completamento della pala già esistente – un’altra croce con Crocifisso rivolta verso i fedeli, in posizione centrale ed elevata. Questa soluzione trova un parziale riscontro nell’architettura tradizionale delle chiese valdostane, dove, sebbene la croce d’altare fosse visibile ai fedeli (poiché la celebrazione avveniva versus Deum), si era soliti collocare un Crocifisso di grandi dimensioni in alto, tra la navata e l’abside.
[32] Cfr. P. RADÓ, op. cit., vol. I, pp. 73-74.
[33] Così prevedevano (e prevedono ancora, per le celebrazioni nella forma straordinaria del rito romano) le norme in vigore prima della riforma liturgica postoconciliare: cfr. Missale Romanum, editio typica 1962, Rubricae generales Missalis romani, 527.
[34] Ordinamento generale del Messale romano, 117: «almeno due candelabri con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della Messa domenicale o festiva di precetto». Per la Messa «stazionale» del Vescovo diocesano il Caeremoniale Episcoporum (125 c) raccomanda di usare sette candelieri.
[35] Salvo nel caso della Messa «stazionale» del Vescovo diocesano: cfr. la nota precedente.
[36] Secondo l’Ordinamento generale del Messale romano, 117, i candelieri non devono impedire «ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare».
[37] Ordinamento generale del Messale romano, 160: «Poi il sacerdote prende la patena o la pisside e si reca dai comunicandi, che normalmente si avvicinano processionalmente».
[38] Rituale Romanum (editio prima post typicam, 1954), tit. V, cap. II, n. 1.
[39] Cfr. Enciclopedia liturgica, a cura di R. AIGRAIN, trad. it., Alba, 1959, p. 204
[40] S. CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Istruzione Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004), 93.
[41] Codex Iuris canonici, can. 838, § 2.
[42] Ibid., §§ 3-4.
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domenica 22 febbraio 2009

I bambini nel cammino neocatecumenale

Strl ci invitava a reinserire thread che parlino di "vita vissuta" e, neanche a farlo apposta, dal link arrivato stamattina, ho potuto trarre questo articolo:
http://laverdaddeloskikos.blogspot.com/

Oggi parliamo dei bimbi nel CN. Da quando sono nel seno materno i piccoli sono benvenuti nella comunità, la madre riceve sempre un applauso appena resta incinta.
Una volta che i bimbi nascono normalmente sono accuditi dalle baby sitter del cammino, mentre i genitori assistono alle riunioni è molto raro che si utilizzino baby sitter che non siano del Cammino.

Da quando nascono i figli, i genitori devono pregar loro per la notte lo Shemà (una preghiera utilizzata dagli ebrei, "ascolta Israele il Signore è nostro Dio il Signore è uno, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima..."), ma curiosamente non si insegna loro la preghiera che nostro Signore Gesù ci ha donato, il Padre Nostro, anche se questa è l'unica preghiera che Egli ci ha insegnato.
Fino ai 6 anni, i bimbi vanno alle convivenze, ma non pregano con la comunità, né in casa la domenica con i propri genitori. Una volta che compiono 6 anni li si introduce alla preghiera delle lodi, momento che colgono i genitori per catechizzarli e fino a questo momento la preghiera in famiglia va bene, ma il problema viene quando fanno la catechesi dei genitori: ed è questo il momento che colgono per l'addottrinamento del bimbo da parte del Cammino.
Normalmente i figli dei fratelli del cammino sin da piccoli si relazionano soltanto con i figli degli altri membri delle comunità, ai genitori si raccomanda che i loro figli non abbiano contatti con gli altri bimbi perché altrimenti resterebbero 'contaminati'. Cioè, che se tu sei nell'Opus Dei o in Comunione e Liberazione e sei membro dei Legionari di Cristo, ugualmente, devi sapere che i tuoi figli possono contaminare quelli del Cammino. In quanto ai bimbi non credenti o che praticano altre religioni è meglio non parlarne proprio.
Con questo comportamento, gli si insegna fin da piccoli che il resto sono poveri infelici, che hanno la disgrazia di non essere nel Cammino e che al più può andar bene che entrino nel Cammino i loro genitori, altrimenti, saranno disgraziati per il resto della loro vita, cadranno nella droga, o finiranno per prostituirsi (queste sono parole di un catechista itinerante).
Con queste convinzioni, non si fa distinzione tra il fatto che siano figli di genitori praticanti o no: per i membri del Cammino il resto delle persone che non sono nel cammino, sono disgraziati o infelici, poiché per essi la felicità si incontra solo nel cammino neocatecumenale.
Esiste solo una cosa PEGGIORE per i membri del Cammino: un bimbo che non è nella Chiesa o che i suoi figli si uniscano con figli di fratelli che hanno lasciato il cammmino. MAI LO PERMETTERANNO, dal momento che da questi bimbi viene il pericolo che possano dimostrare ai propri figli che fuori del Cammino esiste la felicità nel mondo, che Gesù è morto per tutti e che ha sparso lo stesso sangue sia per loro che per quelli che non stanno nel cammino. Questa realtà mette a nudo la loro ipocrisia, ragione per cui lo eviteranno ad ogni costo.
In definitiva, i figli dei membri del cammino non devono aver contatti con il resto dei bimbi, né aver amici, né giocare, con quelli che non sono nel cammino. Tuttavia questo possono evitarlo in certi momenti, ma per esempio nei collegi no, salvo che ci siano più figli di fratelli del cammino e allora i genitori faranno in modo di indirizzarli a giocare con essi e non con il resto.
Attualmente esiste una tendenza nel cammino a creare collegi propri, nei quali mandare i bimbi del cammino, addottrinati da membri del cammino. Sarebbe come dire la separazione totale e assoluta dal resto dei mortali, inclusa la Santa Madre Chiesa.
C'è poi la questione dei digiuni: nel cammino neocatecumenale è costume che i venerdì di quaresima e altre feste, si osservi il digiuno, i genitori del cammino ti dicono che "invitano" i propri figli a osservare il digiuno (ma viene da sé che se il bimbo ha solo pane o niente da mangiare, è sicuro che accetterà forzatamente questo "invito"). Ed è curioso, perché la Chiesa dice che fino ai 16 anni non si è assoggettati al digiuno ed è peccato se lo si fa. Naturalmente nel caso dei figli del cammino questo non è peccato, ciò che riguarda la Chiesa è più blando, non sa far bene le cose. Altro segno che il cammino poco a poco si va separando dalla Chiesa.
Inoltre è molto tipico in questi periodi (quaresima, avvento...) che si disconnetta la televisione come veicolo di peccato sesso e lussuria che si tiene nella casa. Attualmente c'è un'altra tendenza: non tenere televisione nelle case dei membri del cammino (ma non sembra riscuotere molto successo nella pratica). Per questo è curioso che quando questi bambini capitano a casa di altri bimbi s'attacchino al televisore...
Come appare chiaro i poveri figli dei membri del cammino neocatecumenale, ricevono a tutte le ore l'addottrinamento che il bene è nel cammino e il resto è male, giacché nel cammino si applica la massima di S.Paolo che occorre predicare a tempo e fuori tempo. In conclusione ciò che fanno è una preparazione affinché nel futuro essi siano buoni catecumeni o kikos
La prossima volta parleremo degli adolescenti..

Di più non possiamo, ma speriamo che a Qualcuno e ad alcuni serva

Ho fatto girare nel nostro circuito interno l'ultimo dei post del falso paolo vi, ovviamente censurato perché è un argomento di cui abbiamo parlato in tutte le salse. Egli, ostinatamente, continua tra l'altro a dimostrare in maniera logorroica il perché la Lettera di Arinze è una lettera 'privata' e 'superata'.


Strl giustamente mi osserva:
"senti... in estrema sintesi siamo di fronte al solito zombificato e, come ho già scritto, digli male di tutto ma non del CNC.
Io direi di ritornare a parlare di vita vissuta... Siccome si sostiene sempre che il CN fa frutti buoni rimettiamo in luce che ci sono stati già 2 casi di suicidi + 1 tentato suicidio + esaurimenti + etc. etc.
Io, personalmente, non mi metto a disquisire sui riti perché non sono preparato ma i frutti, cavolo, quelli sono in grado di capirli! E questo sono in grado di capirli anche chi legge (che sia del CNC o no...)."


I "frutti amari" del CN ovviamente persistono, ma purtroppo persistono anche i riti: verificato nella mia parrocchia: celebrazioni parcellizzate a porte chiuse, come sempre; ripresa delle "catechesi per adulti" more solito col presbitero che fa scena muta e i catechisti che imperversano papagalleggiando... e così si sta procedendo finché davvero il Signore, in qualche modo e nel momento che solo Lui conosce, interverrà. Perché noi davvero più che fare quel che abbiamo fatto finora e continuare a farlo, perché chi ha orecchie per intendere intenda, di più non possiamo...


venerdì 20 febbraio 2009

Papa: le divisioni nascono da arroganza intellettuale, la Chiesa faccia esame di coscienza

(ASCA) - Citta' del Vaticano, 20 febb

Se nella Chiesa "ognuno vuole essere superiore all'altro e con arroganza intellettuale fa pensare che lui sia il migliore", "nascono le polemiche che sono distruttive": lo ha detto oggi pomeriggio, durante la sua visita al Seminario Romano Maggiore, papa Benedetto XVI, oggetto lui stesso di critiche e dubbi da parte di larghi settori della Chiesa e della gerarchia cattolica nelle ultime settimane.
"Non pensiamo di essere superiori agli altri - ha sottolineato il pontefice - ma entriamo nell'ubbidienza della fede e così si apre il grande spazio della verità e della libertà". Il papa è partito dal passo della lettera di San Paolo ai Galati in cui rimprovera questi ultimi per le loro divisioni interne: " 'vi mordete e attaccate a vicenda come delle belve': emergono le polemiche e uno morde l'altro. Vediamo bene - ha aggiunto - che anche oggi ci sono cose simili dove invece di inserirsi nel Corpo di Cristo, con arroganza intellettuale si pensa che uno è migliore dell'altro, e si fanno polemiche distruttive. Così emerge una caricatura della Chiesa".
Per Ratzinger nella Chiesa di oggi c'è bisogno "un esame di coscienza, che ci aiuti a non pensare di essere superiori all'altro, ma a trovarci insieme nell'umiltà della fede, un grande spazio dove Cristo ci ha chiamato ad essere un solo spirito con lui, nell'amore e nella gioia".


______________________

mi ha molto colpito quel che dice il Papa e spero di poter leggere presto per intero l'intero suo discorso. Intanto condividiamo la riflessione su queste significative parole, tanto 'forti' quanto buio è il momento che stiamo attraversando...


giovedì 19 febbraio 2009

Santa Corrispondenza... con un fedele che sta nel CnC

Caterina ha ricevuto la lettera con la quale apriamo questo argomento, che dedicheremo esclusivamente a tale corrispondenza e all'approfondimento che ne deriverà. Eccola:

"Gentile Caterina,
non ci pensi proprio a spiegare la differenza che esiste fra l'indulto verso un rito ufficiale riconosciuto secolare dalla Chiesa, da una concessione come fu quella data da Paolo VI al CN.
Naturalmente lo dico in tono ironico, ma le spiego il motivo.
Io sono un neocatecumenale di Roma ed è per me motivo di discussione continua con la coppia dei miei catechisti e il parroco che mi da ragione (in sostanza sostengo ciò che sostiene lei), ma che proprio i miei catechisti non vogliono digerire.
In breve sono fra i pochi del mio gruppo che sosteniamo che il Papa ci sta dicendo che dobbiamo ritornare a fare la Messa normale, quella che si celebra nelle parrocchie e che le concessioni che ci sono state date in passato devono restare una tantum, magari per qualche incontro così come è previsto proprio dalle Norme liturgiche che offrono ai gruppi di preghiera, ai ritiri, anche a qualche raduno, di poter celebrare Messa in modo specifico (tra l'altro questo ci è stato confermato dalla segreteria del Vicariato di Roma, ufficio liturgico al quale avevamo sottoposto, con il parroco che non è del Cammino, il problema, e dove appunto i miei catechisti si ostinano a non voler ascoltare.), ma siamo anche i più osteggiati e purtroppo questo non depone poi a favore dei tanti neocatecumenali e gruppi che di tutte queste discussioni, mi creda, non sanno molto.
Lo stile del vostro Blog è pungente e delle volte un pò troppo sarcastico, ma lo trovo stimolante per chiarire che molte cose non dipendono dai semplici neocatecumenali come me, e ce ne sono molti mi creda, e quindi credo che facciate anche bene a chiarire quali sono questi problemi che purtroppo ci creano molte difficoltà nel farci accettare nelle parrocchie. Se qualche neocatecumenale entrando qui, minimizzasse questi problemi, o è in mala fede, oppure vive su un altro pianeta, a meno che non sia un perdi tempo con la voglia di mettere in pessima luce una gran parte del Cammino stesso che anela a dimostrare a sè stesso e agli altri la sua fedeltà al Santo Padre ed alla Chiesa.
Le faccio presente che anche nelle parrochie stesse la maggior parte della gente disconosce le Norme che regolano la Liturgia in generale e i fedeli stessi si affidano ai gruppi liturgici che spesso combinano tanti pasticci, ma pochi gridano allo scandalo, tranne quando qualche volta è lo stesso parroco a porre un freno a molti abusi.
Lo stesso parroco, per esempio, come da lei ricordato, non ha alcuna intenzione di riportare l'inginocchiatoio per la comunione durante la Messa, mi ha risposto: " quando il vescovo mi manderà una circolare allora lo farò".
Il Papa ha aperto una strada molto complessa perchè per molti anni tutti noi, parrocchie comprese, abbiamo usato della liturgia come meglio sentivamo, le sono grato per lo sforzo che sta facendo in rete, la seguo soprattutto sul forum oriens ed ho cominciato a capire molte cose che prima non conoscevo.
Può pubblicare questo mio contributo se lo ritiene valido e spero possa darmi a breve una risposta.

Nella pace di Cristo, Manuele"

lunedì 16 febbraio 2009

CHI E' davvero Gesù

Vi propongo come meditazione, questa visione 'cattolica' di una mia carissima amica tratta dalla liturgia di domenica scorsa che continua a permeare di sé tutta questa settimana; con l'invito a trovarvi le sconnessioni con gli insegnamenti neocatecumenali


domenica sesta del tempo ordinario/b (15.2.2009)
(Lev 13, 1-2 e 45-46 - 1 Cor 10,31 e 11,1 - Mc 1, 40-43)


Un’importante esperienza umana è quella dei simboli: segni che portano dentro di sé un contenuto che non si raggiunge solo ragionando,ma entrando nel valore di vita che essi portano e – nel campo della fede - nell’arcano senso di Dio che in essi si fa presente. Arcano, perché eccede ogni misura umana,ma corrispondente al bisogno umano di entrare in contatto con Dio. Più volte nella Scrittura incontriamo l' “eccedenza “ di Dio, il fatto che attraverso Gesù ci viene comunicata l’immensa vita di Dio attraverso gesti pieni di significato e gesti nei quali la vita di Dio e la vita nostra vengono unite (“simbolo” significa “mettere insieme”). Il vangelo è pieno di simboli: Gesù che spezza il pane, Gesù che sulla strada precede i discepoli, Gesù che mangia con i peccatori; i suoi miracoli spesso sono simboli (così la moltiplicazione dei pani, l’acqua cambiata in vino alle nozze di Cana) e lo sono anche i miracoli (come abbiamo visto domenica scorsa nella guarigione della suocera di Pietro, così il cacciare i demoni segno della potenza di Dio che spezza la potenza del male).


1. Nella guarigione del lebbroso Gesù compie un gesto che, rimanendo al fatto, non dice nulla, ma entrando nell’evento (che significa immedesimarsi, contemplare rimanendo coinvolti) ha un grande significato. Gesù “tocca” il lebbroso. Che bisogno c’era di toccarlo? Non è il tocco della mano ma la potenza di Dio in Gesù che guarisce. Ma quel “toccare” è un grande simbolo, se ricordiamo che il lebbroso era un “immondo”, cioè una persona sotto la potenza del male, obbligata a stare segregata dalla comunità, una specie di morto vivente. Chi toccava un lebbroso (ma anche chi toccava un cadavere, chi si macchiava di sangue) diventava anche lui un immondo. A noi sembra che questi siano usi assurdi, ma erano il segno del senso della serietà del male che animava Israele e della cura che si aveva perché il male non contaminasse la vita del popolo, specie nei suoi rapporti di culto verso Dio, e perché si teneva in grande conto la vita (che si legava al sangue). Pertanto Gesù nel guarire il lebbroso, diventa partecipe della sua immondezza ( e il brano alla fine rileva che Gesù “se ne stava fuori, in luoghi deserti”, proprio come un lebbroso, mentre il lebbroso guarito era ritornato in famiglia e nella società). Che cosa significa tutto questo?
Noi abbiamo celebrato con gioia il Natale, nel quale – come dice un canto – “Dio si è fatto come noi per farci come lui”. Dio nel diventare immondo in Gesù partecipa dell’estrema condizione della “carne”: qui continua la sua incarnazione. Ora lo “scambio” -già prefigurato nel Battesimo da parte del Battista, che era un Battersimo di Penitenza- giunge fino a partecipare della condizione disonorevole (così era nella mentalità del tempo) che portava il lebbroso fuori della comunità.
Ma questo gesto anche anticipa simbolicamente la crocifissione, quando Dio in Gesù fu ritenuto un delinquente, immondo, da far morire fuori della città, fuori della comunità (la crocifissione fu fatta fuori di Gerusalemme). Allora egli giunse alla massima immondezza quando divenne un cadavere. Ma nel toccare il lebbroso Gesù è già quello che sarà sulla croce: “maledetto” (Gal 3, 13-14) e “fatto peccato” ( 2 Cor 5, 21).
Ma nelle conseguenze del toccare si ha anche un anticipo della resurrezione. Mentre Gesù diventa immondo il lebbroso è purificato-guarito (come la suocera di Pietro è stata guarita,come la bimba di Giairo è risuscitata, come la donna che aveva le perdite di sangue è liberata dalla malattia e dalla vergogna). Quel gesto di resurrezione, che abbiamo visto compiersi nella donna che si leva, si alza dal letto della malattia e si mette a servire, oggi si compie anche per il lebbroso. Dunque “toccare l’immondo” è un simbolo che è il riassunto della vita di Gesù.


2. Così a noi appare il volto di Dio. “Nessuno mai ha conosciuto Dio. L’Unigenito Dio rivolto verso il seno del Padre ce lo ha raccontato” (Gv 1,18). Nelle fattezze e nei gesti di Gesù a noi viene rivelato il volto di Dio. Proprio perché Dio è Trinità, Dio unico ma non solitario bensì comunità di amore, Dio non è chiuso in se stesso nella sua infinita perfezione, ma è essenzialmente rivolto all’altro, è relazione. In questo Dio è fecondità, realizzazione di esistenza e di vita. Egli, come noi, esprime il suo intimo (non pensiamo forse chi siamo? Non diciamo a noi e agli altri chi siamo? Non pensiamo forse concetti, cioè pensieri concepiti nella nostra mente? Non facciamo atti del nostro amore e in questo non ci esprimiamo come amore?). Così – pensando se stesso – il Padre ha concepito il Figlio e lo ha amato di infinito amore. E il Figlio nella sua somiglianza col Padre si porta fuori da sé, si offre, vivendo come amore il suo nascere per amore. Questo infinito essere dono porta Dio a farsi carne, a farsi creatura. Lo porta fino alla condizione estrema della creatura che è di essere dominata dalla potenza del male. Avviene in Gesù il paradosso che sporge sull’assurdo: Dio muore, Dio diventa cadavere e pertanto, nella esperienza sociale e religiosa del tempo, diventa immondo. In ogni momento nel quale Gesù si fa immondo si manifesta l’essere di Dio che vive per l’altro fino a condividerne l’esistenza. E’ per questa via che Dio-vita si fa presente nell’estrema indegnità umana e vi porta la dignità della forma di Dio che è ogni creatura. Forma, immagine di Dio, che è negata ogni volta che la potenza del male la porta verso quel nulla della morte e dei segni di morte (peccato,lebbra, malattia,disperazione del cuore) che sono all’opposto del tutto di vita che Dio ha voluto creando. La dignità e la vita che sono ricreati, sono il segno e l’anticipo della pienezza di vita, che nel creare Dio ha inteso,amato,voluto.


3. Dinanzi a questo la meraviglia della fede necessariamente loda l’eccedenza divina che è in questo umile gesto del toccare evangelico. Sente quanto Gesù sia nostro, quanto in lui Dio sia nostro. Per conseguenza diventa necessario amare Dio-amore e diventa profondamente viva in noi la bellezza e la necessità di vivere con Gesù, diventando risposta di amore al suo essere dono, come amore che si unisce alla nostra condizione e la salva. E la lode diventa un concreto rendimento di grazie nell’essere anche noi volti di Dio nella storia di oggi. Che cosa significhi questo, oggi, abbiamo da deciderlo e da vivere come comunità e come singoli. Certo nessuno può esserci estraneo; nessuna chiusura possibile, mai possiamo assentarci dalla storia nei suoi momenti più assurdi. Dove è l’assurdo ivi è la chiamata di Dio-amore, della chiesa-amore, di ognuno/a di noi. Difficile, come fu per Gesù l’immondezza,ma proprio e anche in questo prende luce l’immagine di Dio, l’infinito divino che noi siamo.


giovedì 12 febbraio 2009

Un post per l'utente del blog "Cristiano"... che è il fondamento della nostra testimonianza!

L'Utente "Cristiano" ha sollevato il tema dell' "unità" e della Parola di Dio, letta e compresa con autenticità.

Il Papa stesso, risponderà per noi. Poichè la comprensione di questi "Nodi" è fondamentale per comprendere anche la nostra Testimonianza e la crisi terribile in cui vive la Chiesa.. Anche se in realtà il fatto che non sia risultato GIA' CHIARO non fa che confermare quello che il Papa, da cardinale, aveva già sottolineato... Ed il fatto ancora più allarmante che dal 1986 ad oggi non sia cambiato nulla... Anzi che siano peggiorate le cose...



Fonte: Rapporto sulla Fede.


"Punto irrinunciabile di partenza è, ancora e sempre, una prospettiva religiosa, al di fuori della quale ciò che è servizio apparirebbe intolleranza, ciò che è sollecitudine doverosa sembrerebbe dogmatismo. Se si entra dunque in una dimensione religiosa, si comprende come la fede sia il bene più alto e prezioso, proprio perché la verità è l'elemento fondamentale per la vita dell'uomo.
Dunque, la preoccupazione perché la fede non si corrompa dovrebbe essere considerata - almeno dai credenti - ancor più necessaria della preoccupazione per la salute del corpo. Il vangelo ammonisce di "non temere coloro che uccidono il corpo", ma di temere "piuttosto coloro che, assieme al corpo, possono uccidere anche l'anima" (Mt 10,28). E lo stesso vangelo che ricordacome l'uomo non viva di "solo pane", ma innanzitutto della "Parola di Dio" (Mt 4,4). Ma quella Parola, più indispensabile del cibo, va accolta nella sua autenticità e va preservata da ogni alterazione.
...
Circolano dei facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il "comportarsi bene", l’"amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la preoccupazione per l'ortodossia e, cioè, il "credere in modo giusto", secondo il senso vero della Scrittura letta all'interno della Tradizione viva della Chiesa.
Slogan facile perché superficiale: infatti i contenuti dell'ortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a seconda dei modi di intendere l'ortodossia?
...La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia?

...
"In un mondo dove, in fondo, lo scetticismo ha contagiato anche molti credenti, è un vero scandalo la convinzione della Chiesa che ci sia una Verità con la maiuscola, e che questa Verità sia riconoscibile, esprimibile e, entro certi limiti, anche definibile in modo preciso. È uno scandalo che è condiviso anche da cattolici che hanno perso di vista l'essenza della Chiesa. La quale non è un’organizzazione solo umana, deve difendere un deposito che non è suo, ne deve garantire l'annuncio e la trasmissione attraverso un Magistero che lo ripresenti in modo adeguato e autentico agli uomini di ogni tempo".
...
Eminenza, chiedo, ci sono davvero ancora degli "eretici", ci sono ancora le "eresie"?
"Mi permetta innanzitutto - replica - di richiamare a questo proposito la risposta che dà il nuovo codice di diritto canonico, promulgato nel 1983 dopo 24 anni di lavoro che l'hanno completamente rifatto e perfettamente allineato al rinnovamento conciliare. Al canone (cioè articolo) 751 si dice:
"Viene detta eresia l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa". Per quanto riguarda le sanzioni, il canone 1364 stabilisce che l'eretico - al pari dell'apostata e dello scismatico - incorre nella scomunica latae sententiae [ovvero senza emissione della sentenza!]. Ciò vale per tutti i fedeli ma i provvedimenti sono aggravati contro l'eretico che sia anche sacerdote. Vede dunque che, anche per la Chiesa postconciliare (per quanto vale questa espressione "postconciliare" che non accetto, e spiegherò perché), eretici ed eresie - rubricate dal nuovo Codice come "delitti contro la religione e l'unità della Chiesa" esistono e si è previsto il modo per difenderne la comunità dei credenti".
"La parola della Scrittura è attuale per la Chiesa di ogni tempo così come rimane sempre attuale la possibilità per l'uomo di cadere in errore. È dunque attuale anche oggi l'ammonimento della seconda lettera di Pietro a guardarsi "dai falsi profeti e dai falsi maestri che introdurranno eresie perniciose" (2, 1). L'errore non è complementare alla verità. Non si dimentichi che, per la Chiesa, la fede è un "bene comune", una ricchezza di tutti, a cominciare dai poveri, i più indifesi davanti ai travisamenti: dunque, difendere l'ortodossia è, per la Chiesa, opera sociale a favore di tutti i credenti. In questa prospettiva, quando si è davanti all'errore, non bisogna dimenticare che vanno tutelati i diritti del singolo teologo ma vanno tutelati anche i diritti della comunità.
Naturalmente tutto va sempre visto alla luce del grande ammonimento evangelico: "verità nella carità". Anche per questo, quella scomunica in cui ancor oggi incorre l'eretico, è considerata come "sanzione medicinale": una pena, cioè, che non vuole castigarlo quanto correggerlo, guarirlo. Chi si convince del suo errore e lo riconosce è sempre riaccolto a braccia aperte, come un figlio particolarmente caro, nella piena comunione della Chiesa".
...
In concreto le cose non sono così chiare come le definisce (né può fare
diversamente) il nuovo Codice. Quella "negazione", e quel "dubbio ostinato" di cui si parla, oggi non li incontriamo quasi mai in forma palese. Che nonostante ciò essi esistano in un'epoca spiritualmente complessa come la nostra è da attenderselo: solamente essi non vogliono apparire come tali. Quasi sempre si opporranno le proprie ipotesi teologiche al Magistero, dicendo che questo non esprime la fede della Chiesa, ma solo "l'arcaica teologia romana". Si dirà che non la Congregazione per la fede ma essi, gli "eretici", individuano il senso "autentico" della fede trasmessa. Dove c'è ancora un legame ecclesiale un po' più forte, ci si imbatte in un fenomeno diverso eppure collegato: io resto ogni volta meravigliato dall'abilità di teologi che riescono a sostenere l'esatto contrario di ciò che sta scritto in chiari documenti del Magistero. Eppure quel rovesciamento è presentato, con abili artifici dialettici, come il significato "vero" del documento in questione".


martedì 10 febbraio 2009

Insegnamenti Magisteriali sul sacerdozio (card Ratzinger e Giovanni Paolo II)

Lettera "Sacerdotium ministeriale"
Circa alcune questioni riguardanti il ministro dell'eucaristia


l. Introduzione

l. Nell'insegnare che il sacerdozio ministeriale o gerarchico differisce essenzialmente e non solo di grado dal sacerdozio comune dei fedeli, il Concilio Ecumenico Vaticano II espresse la certezza di fede che soltanto i vescovi e i presbiteri possono compiere il mistero eucaristico. Benché infatti tutti i fedeli partecipino dell'unico e identico sacerdozio di Cristo e concorrano all'oblazione dell'eucaristia solo il sacerdote ministeriale, in virtù del sacramento dell'ordine, è abilitato a compiere il sacrificio eucaristico nella persona di Cristo e ad offrirlo a nome di tutto il popolo cristiano (1).
2. Negli ultimi anni sono però cominciate a diffondersi delle opinioni, talvolta tradotte nella prassi, che negando il suddetto insegnamento ledono nell'intimo la vita della Chiesa. Tali opinioni, diffuse sotto forme e con argomentazioni diverse, cominciano ad attirare gli stessi fedeli, sia perché si afferma che godrebbero di un certo fondamento scientifico, sia perché vengono presentate come rispondenti alle necessità della cura pastorale delle comunità e della loro vita sacramentale.
3. Pertanto questa sacra congregazione, mossa dal desiderio di offrire ai sacri pastori, in spirito di affetto collegiale, il proprio servizio, intende qui richiamare alcuni tra i punti essenziali della dottrina della Chiesa circa il ministro dell'eucaristia, trasmessi dalla viva tradizione ed espressi in precedenti documenti magisteriali (2). Presupponendo la visione integrale dei ministero sacerdotale presentata dal Concilio Ecumenico Vaticano II, essa giudica urgente, nella presente situazione, un intervento chiarificatore a proposito di questo particolare compito essenziale del sacerdote.



2. Opinioni errate

1. I fautori delle nuove opinioni affermano che ogni comunità cristiana, per il fatto stesso che si riunisce nel nome di Cristo e perciò beneficia della sua presenza indivisa (cfr. Mt 18,20), è dotata di tutti i poteri che il Signore ha voluto accordare alla sua Chiesa.
Ritengono inoltre che la Chiesa è apostolica nel senso che tutti coloro che nel sacro battesimo sono stati lavati e incorporati ad essa e resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono realmente anche successori degli apostoli. Dal momento poi che negli apostoli è prefigurata la Chiesa intera, ne conseguirebbe che anche le parole dell'istituzione dell'eucaristia, dirette ad essi, sono destinate a tutti2. Ne consegue anche che, per quanto necessario al buon ordine della Chiesa, il ministero dei vescovi e dei presbiteri non differirebbe dal sacerdozio comune dei fedeli quanto alla partecipazione al sacerdozio di Cristo in senso stretto, ma solo in ragione dell'esercizio. Il cosiddetto compito di moderare la comunità - che include anche quello di predicare e di presiedere alla sacra sinassi - sarebbe un semplice mandato conferito in vista del buon funzionamento della comunità stessa, ma non dovrebbe essere "sacramentalizzato". La chiamata a tale ministero non aggiungerebbe una nuova capacità "sacerdotale" in senso stretto - e per questo il più delle volte si evita lo stesso termine di "sacerdozio" -, né imprimerebbe un carattere che costituisca ontologicamente nella condizione di ministri, ma esprimerebbe soltanto davanti alla comunità che l'iniziale capacità conferita nel sacramento del battesimo diventa effettiva..
3. In virtù dell'apostolicità delle singole comunità locali, in cui Cristo sarebbe presente non meno che nella struttura episcopale, ciascuna comunità, per quanto esigua, qualora venisse ad essere privata a lungo di quel suo elemento costitutivo che è l'eucaristia, potrebbe "riappropriarsi" la sua originale potestà e avrebbe il diritto di designare il proprio presidente e animatore e di conferirgli tutte le facoltà necessarie per la guida della comunità stessa, compresa quella presiedere e consacrare l'eucaristia. Oppure - si afferma - Dio stesso non si rifiuterebbe, in simili circostanze, di accordare, anche senza sacramento, il potere che normalmente concede mediante l'ordinazione sacramentale.
A tale conclusione porta anche il fatto che la celebrazione dell'eucaristia viene spesso intesa semplicemente come un atto della comunità locale radunata per commemorare l'ultima cena del Signore mediante la frazione del pane. Sarebbe di più un invito fraterno, nel quale la comunità si ritrova e si esprime, che non la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo, la cui efficacia salvifica si estende a tutti gli uomini, presenti o assenti, sia vivi che defunti.
4. D'altra parte, in alcune regioni le opinioni errate circa la necessità di ministri ordinati per la celebrazione eucaristica hanno anche indotto taluni ad attribuire sempre minor valore nella loro catechesi ai sacramenti dell'ordine e dell'eucaristia.



3. La dottrina della Chiesa

l. Anche se proposte in forme abbastanza diverse e sfumate, le suddette opinioni confluiscono tutte nella stessa conclusione: che il potere di compiere il sacramento dell'eucaristia non è necessariamente collegato con l'ordinazione sacramentale. E’ evidente che tale conclusione non può assolutamente comporsi con la fede trasmessa, poiché, non solo si misconosce il potere affidato ai sacerdoti, ma si intacca l'intera struttura apostolica della Chiesa e si deforma la stessa economia sacramentale della salvezza.
2. Secondo l'insegnamento della Chiesa la parola del Signore e la vita divina da lui donata sono destinate fin dall'inizio a essere vissute e partecipate in un corpo unico, che il Signore stesso si edifica nel corso dei secoli. Questo corpo è la Chiesa di Cristo, da lui continuamente dotato dei doni dei ministeri "ben fornito e ben compaginato per mezzo di giunture e di legami, riceve l'aumento voluto da Dio" (Col 2,19) (3). Questa struttura ministeriale nella sacra tradizione si esplicita nei poteri affidati agli apostoli e ai loro successori, di santificare, di insegnare e di governare in nome di Cristo.
L'apostolicità della Chiesa non significa che tutti i credenti siano apostoli (4), fosse pure in modo collettivo; e nessuna comunità ha la potestà di conferire il ministero apostolico, che fondamentalmente viene accordato dal Signore stesso. Quando la Chiesa nei simboli si professa apostolica esprime, dunque, oltre all'identità dottrinale del suo insegnamento con quello degli apostoli, la realtà della continuazione del compito degli apostoli mediante la struttura della successione, in forza della quale la missione apostolica dovrà durare sino alla fine dei secoli (5).
Tale successione degli apostoli, che costituisce apostolica tutta la Chiesa, fa parte della viva tradizione, che per la Chiesa è diventata fin dall'inizio, e continua ad essere, la sua forma di vita. Perciò si allontanano dal retto sentiero coloro che oppongono a questa viva tradizione talune singole parti della Scrittura, dalle quali pretendono di dedurre il diritto ad altre strutture.
3. La Chiesa cattolica, che è cresciuta nei secoli e continua a crescere per la vita datale dal Signore con l'effusione dello Spirito santo, ha sempre mantenuto la sua struttura apostolica, fedele alla tradizione degli apostoli che vive e perdura in essa. Imponendo le mani agli eletti con l'invocazione dello Spirito santo, essa è consapevole di amministrare la potenza del Signore, il quale rende partecipi in modo peculiare i vescovi, successori degli apostoli, della sua triplice missione sacerdotale, profetica e regale. A loro volta i vescovi affidano, in vario grado, l'ufficio del loro ministero a vari soggetti nella Chiesa (6).
Perciò, anche se tutti i battezzati godono della stessa dignità davanti a Dio, nella comunità cristiana voluta dal suo divin Fondatore strutturata gerarchicamente, esistono fin dai suoi primordi poteri apostolici specifici derivanti dal sacramento dell'ordine.4. Fra questi poteri che Cristo ha affidato in maniera esclusiva agli apostoli e ai loro successori figura quello di fare l'eucaristia. Ai soli vescovi e ai presbiteri, che essi hanno resi partecipi del ministero ricevuto, è quindi riservata la potestà di rinnovare nel mistero eucaristico ciò che Cristo ha fatto nell'ultima cena (7).
Perché possano svolgere i loro compiti, e specialmente quello così importante di compiere il mistero eucaristico, Cristo Signore contrassegna spiritualmente coloro che chiama all'episcopato e al presbiterato con un particolare sigillo mediante il sacramento dell'ordine, sigillo chiamato "carattere" anche in documenti solenni del magistero (8), e li configura talmente a sé che essi, allorché pronunciano le parole della consacrazione, non agiscono per mandato della comunità, ma ""in persona Christi", il che vuol dire di più che "a nome di Cristo" oppure "nelle veci di Cristo"... poiché il celebrante, per una particolare ragione sacramentale, si identifica con il Sommo ed eterno Sacerdote", che è l'autore e il principale attore dei suo proprio sacrificio, nel quale in verità non può essere sostituito da nessuno" (9).
Poiché rientra nella natura stessa della Chiesa che il potere di consacrare l'eucaristia è affidato soltanto ai vescovi e ai presbiteri, i quali ne sono costituiti ministri mediante la recezione dei sacramento dell'ordine, la Chiesa professa che il mistero eucaristico non può essere celebrato in nessuna comunità se non da un sacerdote ordinato come ha espressamente insegnato il concilio ecumenico Lateranense IV (10).
Ai singoli fedeli o alle comunità che a causa di persecuzioni o per mancanza di sacerdoti sono private della celebrazione della sacra eucaristia per breve tempo, o anche a lungo, non viene comunque a mancare la grazia del Redentore. Se animati intimamente dal voto del sacramento e uniti nella preghiera con tutta la Chiesa invocano il Signore e innalzano a lui i loro cuori, essi in virtù dello Spirito santo vivono in comunione con la Chiesa, corpo vivo di Cristo, e con il Signore stesso. Perciò, uniti alla Chiesa mediante il voto del sacramento, per quanto sembrino lontani esternamente, essi sono intimamente e realmente in comunione con essa e di conseguenza ricevono i frutti del sacramento, mentre coloro che cercano di attribuirsi indebitamente il diritto di compiere il mistero eucaristico, finiscono per chiudere in se stessa la loro comunità (11).
Tale consapevolezza non dispensa però dal grave dovere dei vescovi, dei sacerdoti e di tutti i membri della Chiesa di pregare perché il "Padrone della messe" mandi operai secondo le necessità dei tempi e dei luoghi (cfr. Mt 9,37s) e di adoperarsi con tutte le loro forze perché venga ascoltata e accolta con umiltà e generosità la vocazione del Signore al sacerdozio ministeriale.



4. Invito alla vigilanza

Nel richiamare questi punti all'attenzione dei sacri pastori della Chiesa, la S. Congregazione per la dottrina della fede desidera offrire loro un servizio nel ministero di pascere il gregge del Signore con il nutrimento della verità, di custodire il deposito della fede e di conservare integra l'unità della Chiesa. E' necessario resistere, forti nella fede, all'errore, anche quando si manifesta sotto l'apparenza di pietà, per poter abbracciare gli erranti nella carità del Signore, professando la verità nella carità (cfr. Ef 4,15). I fedeli, che pretendono di celebrare l'eucaristia al di fuori del sacro vincolo della successione apostolica stabilito con il sacramento dell'ordine, si escludono dalla partecipazione all'unità dell'unico corpo del Signore, e perciò non nutrono né edificano la comunità, ma la distruggono.Ai sacri pastori incombe quindi il compito di vigilare perché nella catechesi e nell'insegnamento della teologia non continuino a essere diffuse le suddette opinioni errate, e soprattutto perché non trovino concreta applicazione nella prassi; e qualora si verificassero casi del genere incombe loro il sacro dovere di denunziarli come del tutto estranei alla celebrazione del sacrificio eucaristico e offensivi della comunione ecclesiale. Lo stesso dovere essi hanno nei confronti di coloro che sminuissero l'importanza centrale, per la Chiesa, dei sacramenti dell'ordine e dell'eucaristia. Anche a noi, infatti, è detto: "Predica la parola, insisti a tempo debito e indebito, confuta, esorta con tutta longanimità e volontà d'istruire... vigila attentamente, reggi alla prova, predica il Vangelo, adempi il tuo ministero" (2Tm 4,2-5).
La sollecitudine collegiale trovi, dunque, in queste circostanze una concreta applicazione, tale che la Chiesa indivisa, pur nella sua varietà di Chiese locali che collaborano insieme (12), custodisca il deposito affidatole da Dio tramite gli apostoli. La fedeltà alla volontà di Cristo e la dignità cristiana richiedono che la fede trasmessa rimanga la stessa e così porti a tutti i fedeli la pace nella fede (cfr. Rm 15,13).
Il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'udienza concessa al sottoscritto cardinale prefetto, ha approvato la presente lettera, decisa nella riunione ordinaria di questa s. congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla sede della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, il 6 agosto 1983, nella festa della trasfigurazione del Signore.


+ Joseph card. RATZINGER
prefetto
+ fr. Jéròme HAMER o.p., arcivescovo tit.di Lorium
segretario
_____________________

La lettera fa esplicito riferimento a "Comunità" i cui insegnamenti e prassi si allontanano dalla fede cattolica.
C'è un movimento, in particolare che riproduce per intero la casistica contemplata nella lettera...
Dobbiamo chiederci anche il perché due anni dopo - il 9 dicembre 1985 - Giovanni Paolo II, parlando direttamente proprio ai sacerdoti neocatecumenali, rivolgesse loro queste parole: ""La prima esigenza che vi s’impone è di sapere mantener fede, all’interno delle Comunità, alla vostra identità sacerdotale. In virtù della sacra Ordinazione voi siete stati segnati con uno speciale carattere che vi configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in suo nome (cf. Presbyterorum ordinis, 2). Il ministro sacro quindi dovrà essere accolto non solo come fratello che condivide il cammino della Comunità stessa, ma soprattutto come colui che, agendo “in persona Christi”, porta in sé la responsabilità insostituibile di Maestro, Santificatore e Guida delle anime, responsabilità a cui non può in nessun modo rinunciare. I laici devono poter cogliere queste realtà dal comportamento responsabile che voi mantenete. Sarebbe un’illusione credere di servire il Vangelo, diluendo il vostro carisma in un falso senso di umiltà o in una malintesa manifestazione di fraternità. Ripeterò quanto già ebbi occasione di dire agli assistenti ecclesiastici delle associazioni internazionali cattoliche: “Non lasciatevi ingannare! La Chiesa vi vuole sacerdoti, e i laici che incontrate vi vogliono sacerdoti e niente altro che sacerdoti. La confusione dei carismi impoverisce la Chiesa, non la arricchisce” (Giovanni Paolo II, Allocutio, 4, 13 dicembre 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979] 1391).""


La grande guerra del Concilio

Reinserisco alcuni brani del lunghissimo articolo già proposto da Steph. Chi volesse consultarlo integralmente può prelevarlo dalla "Documentazione" del Sito

La grande guerra del Concilio.
Alla ricerca della continuità evolutiva del Vaticano II tra interpretazioni ufficiali e forzature "neoteriche".
di Mons. Brunero Gherardini

Proprio così: "la grande guerra del Concilio". E forse anche al Concilio. Lo dichiara o lo lascia capire Maurizio Crippa dalla prima pagina de "Il Foglio" (XII, n. 266), interamente dedicata all'argomento; e rincara la dose: "la più ponderosa battaglia culturale del Novecento". Si riferisce al convegno celebrato ad Ancona il 10 nov. 2007, per iniziativa del Centro Studi "Oriente Occidente" sul filosofo e filologo svizzero Romano Amerio, ben noto per la sua opera principale Jota unum (1985). Chi avesse osato citare anche solo occasionalmente "Jota unum" o il successivo "Stat veritas", uscito subito dopo la morte dell'Autore (1997), avrebbe corso il rischio d'esser additato al pubblico ludibrio.

Con un linguaggio un po' aulico ma anche con indubbia preparazione filosofica, filologica e teologica, Amerio aveva messo il dito sulla piaga più scottante del momento: la rottura che i "neoterici" [portatori di un "nuovo pensiero"], come lui chiamava gli'innovatori del Vaticano II, avevan operato ai danni della Tradizione. Era, la sua, un'opera di paziente analisi dell'innovazioni avventatamente introdotte, dei forzati cambiamenti di senso, degli errori evidenti e di quelli più sotterranei ma non per questo meno pericolosi; insomma, un'aperta e coraggiosa denuncia. Un immediato successo, poi un silenzio di tomba. E chi si provava a far della denuncia l'oggetto d'un dibattito serio e responsabile, veniva bollato, con superficiale indelicatezza e mancanza di carità, come anticonciliare.


Una mazzolata. Se non che, oggi anche Amerio potrebbe dire: "Post fata resurgo". Nel 2005 fu al centro d'un convegno a Lugano (i cui Atti son già di pubblico dominio) su "L'umanista, il luganese, il cattolico"; e sempre in quell'anno comparve una sua biografia. È annunciata per il 2008 una nuova edizione di Jota unum. E gli Atti del convegno d'Ancona son già sotto i torchi della benemerita editrice "Fede & Cultura".


Come se non bastasse, "L'Osservatore Romano", "La Civiltà Cattolica" ed uomini di vertice sembrano avallare il convincimento di Divo Barsotti sull'opportunità di fa cadere un tabù a difesa "d'un vero cristiano". Su questo vero cristiano, ecco il convegno d'Ancona. Ed ecco pure, all'interno di esso, la netta presa di posizione di S.E. Rev.ma Mons. Agostino Marchetto il quale, senza mai nominar Amerio, passa al vaglio le idee dei "neoterici" bolognesi e ne fa polpette. Distrugge, cioè, le conclusioni della scuola fondata da Dossetti (anche a me nota, per averne frequentato da giovanissimo il Centro di Documentazione, dove trovavo ciò che non trovavo altrove su Lutero e la Riforma) e diventata con Alberigo, Melloni ed altri una centrale potentissima dell'avanguardismo cattolico. Il condensato di codesto avanguardismo, ammantatosi di dignità conciliare, si sprigiona da ogni pagina della monumentale storia del vaticano II (specie del V volume) a cura di Giuseppe Alberigo, dove il Vaticano II è studiato, analizzato e descritto non solo come la zona di confine fra un cattolicesimo di tradizione, di dogmi e di canoni ed un cattolicesimo propulsivo, acculturato e comunionale, ma come la forza dirompente che neutralizza il primo ed inaugura il secondo. In realtà, nella serrata critica di Mons. Marchetto non c’è nulla di nuovo; tutto era già stato detto, papale papale, a varie riprese in articoli e studi poi confluiti nei due grossi volumi: Chiesa e papato nella storia e nel diritto, Vaticano 2002 e Il Concilio Ecumenico Vaticano II, ivi 2005. La sua stella è la Tradizione; e la chiave di lettura della Tradizione stessa e di tutto quanto si muove nella storia è il metodo critico. C’è in lui un piglio battagliero, non disgiunto dalla gioia di rimetter le cose nella loro giusta prospettiva; incarna il “felix qui potuit rerum cognoscere causas” (1).

Ciò che oggi colpisce è non solamente e soprattutto l’ermeneutica conciliare della continuità-discontinuità. Pure il Papa ne ha parlato alla Curia Romana il 22 dicembre 2005. Non mi consta che i “neoterici” abbian cambiato convinzione. Una riaffermazione così perentoria della perenne attualità ed immutato valore della Tradizione era, fin a poco fa, quasi impensabile. Che il Concilio fosse presentato nella linea della continuità evolutiva o in quella d’una netta contrapposizione al passato, l’interesse veniva con forza richiamato dalle “novità” conciliari. D’accordo, “aliter tamen ac taliter”, per motivi nettamente diversi, non impedendo gli uni la preferenza del passato nel presente, precludendola gli altri. Ma, in pratica, il discorso si fermava sul nuovo o perché in esso confluiva l’impeto inarrestabile della pastoralità conciliare, o perché esso costituiva il voltafaccia conciliare al primato verticistico, intellettualistico, giuridico.

[...] In quella che ho chiamato interpretazione ufficiale si nascondeva un difetto che, comprensibilmente ma non legittimamente, contagiava la produzione storico-teologica, o almeno quanti, fra storici e teologi, più che della ricerca sulle rispettive fonti, si preoccupavano di riecheggiar il Vaticano II e la sua ufficiale volgata. Un grave difetto, a mio modesto parere: non senza qualche rara eccezione, si giustificava il Vaticano II riproponendolo. Lo stesso difetto si nota nella volgata opposta, alla quale S.E. Mons. Marchetto ha sbarrato la strada, guadagnandosi la stima e la gratitudine di chi né s’entusiasmava alla richiesta d’un Vaticano III, né supinamente accettava la riduzione del II ad una funzione di rottura.

... Almeno due volte, nell’immediato postconcilio, mi ritrovai gomito a gomito col prof. Alberigo, da poco scomparso, a discutere di collegialità, “Nota explicativa praevia” ed ecumenismo. Alberigo aveva sposato la politica detta allora “del carciofo” per ridurre ai minimi termini, foglia dopo foglia, il primato del Romano Pontefice e la sua infallibilità “ex cathedra”, le prerogative della Chiesa e del suo Magistero. In me non poca meraviglia suscitava la “personale infallibilità” del Professore nell’imporre la sua interpretazione, ch’era poi un progetto: sostituire alla Chiesa della dottrina, del magistero e della compattezza unilaterale una Chiesa della comunione. E – ovviamente – della libertà.

... Nessuno può negare che il Vaticano II sia stato grande: un Concilio che allinea nell’Aula conciliare oltre 2540 vescovi, 42 uditori laici e 90 osservatori non cattolici (2), ed allarga il proprio orizzonte su quasi tutte le tematiche teologico-culturali del momento, non è una bagatella. Ma proprio questo Concilio, e per sua diretta confessione, rinunzia ad incidere dottrinalmente sul mondo contemporaneo, dichiarando che il valore dogmatico dei propri asserti è quello delle singole verità precedentemente definite, cui tali asserti si riferiscano. Tutto il resto va sotto l’etichetta “pastorale”, ovvero dell’adattamento, dell’inculturazione, del dialogo: insomma di ciò che formalmente è altro rispetto al dogma e alla dottrina.

Stando così le cose, non sembra corretto continuar ad esaltare oltre il dovuto il valore “dottrinale” del Vaticano II. C’è di più. Io pure penso che l’unica chiave di lettura del Vaticano II sia quella della continuità evolutiva. È possibile esprimerla in vari modi, ma il concetto dovrebbe restar sempre quello del valore tradizionale che s’affaccia sulla soglia del presente, concorre ad illuminare e risolverne i problemi e prepara il futuro.

... Non solo i “neoterici”, ma gli stessi commentatori di tutt’altro sentire annuivano alla tesi della cattolicità allargata e non pochi decisamente la sostenevano. Più tardi, quando lo stesso Magistero volle per almeno due volte (3) riaffermare l’identità fra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, si richiamò pure – forse per addolcire la pillola e tacitare le reazioni facilmente prevedibili – al famoso “subsistit in” e non certo in senso restrittivo. Il risultato? Gli acattolici, purtroppo, videro in tutto ciò soltanto il ritorno da “in” del Vaticano II ad “est” della precedente ecclesiologia e se ne lamentarono altamente. Ma un tale lamentato ritorno è una conferma dell’innovazione conciliare circa il concetto e la portata della cattolicità.

Quanto alla collegialità, mi riferisco in particolar modo alle affermazioni di Lumen gentium 22/b, secondo le quali il Romano Pontefice ed il Collegio dei Vescovi hanno sulla Chiesa “piena suprema ed universale potestà”, che tuttavia il Pontefice “può sempre esercitare liberamente”, mentre il Collegio non può “se non consenziente il Romano Pontefice”. Non sfugge all’attenzione del lettore, e soprattutto dello studioso, l’affermazione d’un “a pari” a mala pena temperato. Introdotto da un “subiectum quoque” (è esso pure soggetto) che mette il Collegio sullo stesso piano del Papa, “l’a pari” opera un’insostenibile innovazione rispetto alla struttura piramidale della Chiesa, al concetto di Collegio di per sé sempre composto da membri di pari grado e all’assurdo d’una “potestà piena suprema universale” nelle mani di due distinti titolari.

Ad evitare che si movessero al Concilio obiezioni di tale e tanta gravità, escogitai la distinzione tra “quoque” predicativo (oltre a ciò, è anche) e “quoque” reduplicativo (è questo ma è anche altro), negando il reduplicativo a favore del predicativo, cosicchè fosse chiaro che il Collegio, nelle forme previste e definite, era “anche” partecipe, col Papa e sotto il Papa, alla piena suprema universale potestà sulla Chiesa, ma non “anch’esso” dotato di tale potestà. La conclusione, pertanto, era quella d’una collegialità intesa quale continuità dei Dodici, sotto la primazialità di Pietro e mai contro o senza di essa. Una continuità, quindi, che fa del Papa, in quanto vescovo, un membro del Collegio, ma che, in quanto vescovo di Roma, cioè in quanto Papa, lo costituisce principio e forma perfettiva del Collegio. Con questa conseguenza: non si danno nella Chiesa due soggetti di pari potestà, ma due esercizi d’una sola e medesima potestà: l’uno del Papa e l’altro del Papa con i Vescovi.

I commentatori, tuttavia, ufficiali o no, continuarono e continuano (4) ad enfatizzar una collegialità innovativa e antistorica, agganciandola a precedenti che con essa – ossia con la collegialità da loro declamata – han quasi nulla in comune. L’innovazione, per lo storico non meno che per il teologo, è evidente. Ed almeno in riferimento a tale innovazione, sia da parte di chi inneggia al Concilio-evento, sia da parte di chi inneggia invece al Concilio-continuità ed evoluzione, non si dicon cose diverse.

Resta, peraltro, incontrovertibile la posizione dei “rerum novarum cupidi” che non han mai cessato d’opporre la propria all’interpretazione ufficiale. Disponendo di mezzi ingenti, han potuto affidare la loro volgata del Vaticano II non a qualche bollettino parrocchiale – anche se va detto che in non pochi di questi bollettini, nel quotidiano della Cei ed in quasi tutt’i settimanali cattolici proprio codesta volgata trovò le porte spalancate – bensì a case editrici di grande prestigio e di non inferiore potenza economica.

... Perfino in alcuni documenti curiali il Concilio vien presentato ed esaltato indipendentemente da una sua analisi storico-scientifica. C’è in ciò una vaga analogia all’Autopistia protestante: un’autogiustificazione intrinseca ai documenti stessi, come se l’esegesi d’un testo conciliare godesse d’una sua immanente evidenza o si risolvesse nella tautologia del medesimo. Eppure, per un “esegeta” di buona volontà non mancava la possibilità di procedere sulla scorta d’una documentazione sicura. .... Peccato che il metodo critico non sia stato il punto forte dell’esegesi stampata né di quella ufficiale.

A render ancor più ingarbugliata la matassa, prima con una certa cautela, poi, specie in clima voitiliano, sempre più apertamente e spavaldamente, operò il c.d. dialogo ecumenico. Scorrendo i volumi dell’Enchiridion oecumenicum, c’è da spaventarsi: la difesa d’una verità o d’un asserto teologico cattolico sembra, quando c’è, una timida e garbata richiesta di scusa; prevalente è l’aperturismo sempre meno controllato, il cui esito, in nome del Concilio, rivela in non pochi casi il rovesciamento delle posizioni conciliari. È vero, allora, quanto Mons. Marchetto rimprovera ai progressisti, forse volutamente ignorando che, almeno in parte, anche sul versante opposto qualcuno meriterebbe il medesimo rimprovero: che cioè “la fede e la Chiesa non appaiono più coestensive con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importante…

L’adesione alla dottrina e soprattutto ad una singola formulazione dottrinale” ha ormai cessato “d’essere il criterio ultimo per discernere l’appartenenza all’Unam Sanctam”. ...